Marco Del Corona, Corriere della Sera 19/4/2009, 19 aprile 2009
DAL NOSTRO INVIATO
TIANJIN – Il 26 dicembre 2008 è probabilmente destinato a finire sui calendari della nuova Cina. Dall’isola di Hainan, quel giorno sono salpate due unità da guerra – la Haikou e la Wuhan – con la nave appoggio Weishanhu dirette verso l’Oceano Indiano, al largo delle coste somale. Era il contributo di Pechino alla missione internazionale contro la pirateria ma, soprattutto, costituiva la prima spedizione navale militare cinese dal XV secolo. All’inizio di aprile, da Zhanjiang nel Guangdong, sono partiti i rimpiazzi, l’ammiraglia Shenzhen e la Huangshan, nuova nuova, un anno di onorata carriera alle spalle, mentre la nave appoggio resta nel teatro delle operazioni. Se mai servisse un segno ulteriore che la mobilitazione di Pechino nel Golfo di Aden non si riduce a una fiammata estemporanea, eccolo. Un impegno strategico di lungo periodo.
La Cina, dunque, non ha paura del mare. Non più. La sua affermazione come potenza regionale e il suo proporsi come attore internazionale, vedi il G20, passa anche attraverso gli oceani. Le direttrici dell’espansione economica e commerciale hanno bisogno di rotte, l’orizzonte della Repubblica popolare si estende dall’Africa agli Stati Uniti, dal Medio Oriente all’America Latina e all’Australia. Viaggi nei due sensi, anche se l’export dalla Cina risulta pesantemente eroso dalla crisi. E dal mare convergono verso la Cina le materie prime. In linea con lo sforzo di potenziare il mercato domestico, si aggiunge il rilancio delle tratte marittime interne, dai porti del Nord verso il Sud e viceversa.
Le rotte intercontinentali, poi, vanno rese sicure, ben oltre i limiti regionali. I pericoli non sono solo nel trafficatissimo Stretto di Malacca (tra l’isola indonesiana di Sumatra e la penisola malese), per esempio, ma anche più lontano. Così, pure le acque della Somalia diventano fondamentali, considerando gli interessi in Africa, e oltre.
Prima ancora che una questione di navigazione civile o di marina militare, ciò che la Cina sta affrontando è una mutazione culturale. Un impero continentale che guardava con diffidenza al mare impara a considerare le proprie coste un punto di partenza, non un limite. «I barbari in Cina sono sempre venuti via terra.
E’ dopo il 1840, con le guerre dell’oppio, che le potenze industriali occidentali trasformarono il mare in una minaccia», spiega Wang Xiangsui, professore e direttore dell’Istituto di studi strategici alla Beijing University of Aeronautics & Astronautics. Benché alla fine della dinastia Qing, l’ultima, fu costituita una flotta militare, ancora dopo la nascita della Repubblica popolare nel 1949 i libri scolastici parlavano delle coste come di una «linea di difesa» davanti ad acque ancora una volta gonfie di pericoli.
«Negli anni di Mao Zedong – dice ancora Wang al Corriere – la capacità marittima era gravemente condizionata dal basso livello tecnologico, non si era in grado di costruire navi importanti, dunque anche le attività militari erano limitate alle acque territoriali». Non soltanto a causa dei diversi scenari geopolitici, dunque, una missione stile Somalia sarebbe stata «impensabile e impossibile». Sono le riforme di Deng Xiaoping, dicembre 1978, a costituire il punto di svolta: «Si capì che il mare era l’imprescindibile canale degli scambi, la via attraverso cui far propri i metodi di produzione avanzati». Oggi a Shanghai – per fare un esempio – c’è il porto commerciale con il maggior traffico cargo al mondo, un record raggiunto nel 2008 per il quarto anno di fila, 582 milioni di tonnellate movimentate con un incremento del 3,6%, nonostante la crisi (ed è secondo al mondo per traffico di container, più 7,1%), sempre lo scorso anno hanno vi hanno fatto scalo 61.900 navi cinesi e straniere. Tra piccoli e grandi, la Repubblica popolare conta 1.400 porti. Cattiva programmazione, localismi, opposti «guanxi» (le reti di comunanza e di interesse su cui si regge la società cinese) hanno prodotto però situazioni irragionevoli e antieconomiche. L’autorevole rivista Caijing avverte che il pessimo sistema fiscale e legale impedisce il decollo di Shanghai come vero polo mondiale della navigazione commerciale. Ancora: Tianjin, storicamente il porto della capitale, è stato a lungo indebolito dalla concorrenza fra due strutture portuali, finché una di queste, la Tpd, ha avanzato un’offerta da un miliardo di euro per il controllo della rivale Tianjin Port (quotata alla Borsa di Shanghai). La crisi picchia e impone di mettere ordine. Nei primi due mesi del 2009, il traffico complessivo delle merci in tutti i porti cinesi è calato del 5% sull’anno scorso. In questo contesto occorre razionalizzare e risolvere le competizioni che penalizzano i contendenti: una per tutte, nel delta dello Yangtze, i porti vicini di Yangshan (Shanghai) e di Ningbo-Zhoushan. E per la Cina contano anche i porti stranieri, con le società di Stato che investono nelle strutture straniere, Europa inclusa. Lo scorso novembre il presidente Hu Jintao ha fatto tappa in Grecia per assistere alla sigla del contratto con cui la cinese Cosco (China Ocean Shipping Company) ha ottenuto per 4,4 miliardi di euro la gestione del porto container del Pireo.
La sicurezza delle rotte e l’affermazione del proprio status impongono a Pechino non solo di potenziare la flotta militare, ma anche di farlo tenendo conto dei simboli. «Costruire portaerei è un attributo delle nazioni importanti, è davvero necessario», ha proclamato ai primi di marzo l’ammiraglio Hu Yanlin. A fine mese, ancora, in un incontro con l’omologo giapponese, il ministro della Difesa, Liang Guanglie, è stato ancora più categorico: «Tra le grandi nazioni, solo la Cina non ha portaerei. Non possiamo rimanere senza per sempre. La nostra marina è piuttosto debole, la portaerei ci serve». E il 15 aprile l’ammiraglio Wu Shengli, dal 2006 capo della marina militare, ha rivelato i piani per sviluppare una nuova generazione di navi da guerra, sottomarini silenziosi e aerei da combattimento, per potenziare il sistema di difesa marittimo: serviranno anche «a proteggere lo sviluppo economico della nazione», ha dichiarato alla Xinhua. A sessant’anni dalla nascita dell’armata di mare (giovedì 23 l’anniversario), è quanto manca per coronare una grandeur che trova nei mari il suo nuovo orizzonte. L’incidente a Sud dell’isola di Hainan all’inizio di marzo, quando una nave americana è stata avvicinata e minacciata da unità cinesi, è servito a ricordare che Pechino esibisce un pieno controllo sulle acque che reputa di sua pertinenza. La tutela degli interessi economici e strategici passa attraverso rotte sorvegliate. Ne sanno qualcosa i Paesi che reclamano anche solo in parte la sovranità sugli arcipelaghi Spratly e Paracel, nel Mar Cinese Meridionale, o il Giappone, con cui la questione del controllo delle isole Diaoyutai (Senkaku per i giapponesi) suscita periodici picchi di tensione. Come ha scandito Liu Chengjun, capo dell’Accademia di Scienze militari dell’Esercito popolare, «la crisi finanziaria globale può aggravare le dispute territoriali marittime in Asia Orientale ». Le ambizioni si misurano con i tempi che corrono. E se il mare è misura delle ambizioni di una nazione, la Cina ha preso il largo.
Marco Del Corona