Gian Antonio Stella, Corriere della Sera 19/4/2009, 19 aprile 2009
Chi spartisce gioisce, dice un vecchio adagio. Sarà... Ma certo non vale nel caso delle ricostruzioni dopo le catastrofi
Chi spartisce gioisce, dice un vecchio adagio. Sarà... Ma certo non vale nel caso delle ricostruzioni dopo le catastrofi. Al contrario, la storia degli ultimi decenni dimostra che gli aquilani dovranno difendersi da un nemico più infido della peste: l’«occasionismo». Che con la scusa di «usare» il disastro come occasione per «una grande rinascita dell’area» potrebbe allargare a dismisura l’area terremotata e disperdere gli aiuti in migliaia di rivoli. Rivoli che, storicamente, hanno finito per premiare i furbi togliendo risorse ai terremotati veri. C’è chi dirà che è troppo presto per porre questo tema. Che questo maledetto sciame sismico non si è ancora placato. Che gli scienziati stanno registrando un continuo spostamento degli epicentri. Che non è ancora chiaro cosa sarà della frattura della crosta terrestre che si è attivata ai piedi del Gran Sasso e dunque è impossibile definire oggi i confini della zona disastrata. Vero. Il passato, però, ammonisce che in questi casi occorre stare in guardia. Perché, sul fronte della cosiddetta «economia della catastrofe », ne abbiamo viste di tutti i colori. Due esempi? Li racconta Luciano Di Sopra, l’architetto che firmò la relazione sui danni del terremoto e il piano di ricostruzione in Friuli. «Primo caso: dopo la sciagura del Vajont il governo concesse alle vittime dell’onda che aveva spazzato via Longarone una serie di benefici tra cui l’esenzione pluriennale dalle tasse e come finì? Che la licenza d’una bottega di alimentari di Erto fu ceduta, compresa la preziosa esenzione in allegato, a un grande supermercato di Lignano Sabbiadoro, a 120 chilometri di distanza, sul mare. Secondo caso: quale fu il comune che chiese il più alto risarcimento danni in rapporto agli abitanti per il terremoto in Irpinia del 1980? C’è chi risponderà: Sant’Angelo dei Lombardi. No: Maratea. Che stava a più di centoquaranta chilometri dall’epicentro». Di Sopra, dopo essersi occupato di vari terremoti anche all’estero, dall’Armenia a Città del Messico, si è fatto un’idea precisa: «Più gli interventi sono mirati, più alta è la probabilità di una ricostruzione rapida, efficace, corretta. Più si allargano ’politicamente’ i confini dell’area interessata, più si rischia la dispersione dei fondi, l’uso clientelare dei soldi, l’infiltrazione di chi è interessato solo a speculare sulla sventura delle popolazioni. Con danni gravissimi a chi è stato più colpito. Delineare correttamente l’area colpita è dunque la scelta fondamentale ». Le diverse vicende dei più luttuosi cataclismi degli ultimi decenni questo dicono: la ricostruzione ha dato i risultati migliori là dove si sono concentrati gli sforzi. L’onda assassina del Vajont, il 9 ottobre 1963, devastò tre comuni: Longarone, Castellavazzo ed Erto-Cassio. I morti furono 1.917, i senzatetto 9mila. «I gera in leto drio dormir / no’ s’à salvà gnanca un cussìn », canta Alberto D’Amico: erano a letto a dormire, non si salvò manco un cuscino. La politica fece una scelta: cogliere l’occasione per rilanciare la montagna bellunese minata da secoli di povertà ed emigrazione. Ampliando l’area interessata fino a 18 volte e riconoscendo danni a 42 comuni per un totale di 156mila abitanti. Senza mai rendere giustizia fino in fondo, neanche in tribunale, come ricorda Marco Paolini, a chi aveva perso tutto. Cinque anni dopo, nel Belice, la replica. I comuni devastati dal terremoto di 6,4 gradi della scala Richter la notte del 15 gennaio 1968 sono 13, per un totale di 97mila abitanti. A Gibellina, Poggioreale, Salaparuta e Montevago i morti sono 370. Ma poco alla volta, in nome della solita «occasione» per «rilanciare» l’area, il perimetro viene allargato di nove volte fino a interessare una buona parte della Sicilia occidentale per un totale di 850mila abitanti. Col risultato che trent’anni dopo, nella sola Santa Margherita, ci saranno ancora 150 famiglie ospitate nelle baracche. Anche nel Friuli, piegato nel ”76 da un sisma che uccide 989 persone, devasta 94 comuni e demolisce 200 industrie, rischia di passare la stessa scelta: perché non cogliere l’occasione? I friulani dicono no. E Manzano, come raccontavamo giorni fa, arriva al punto di deliberare in consiglio comunale la rinuncia ad essere inserito tra i centri terremotati. Certo, la definizione dei confini dell’ area colpita, a mano a mano che si verificano i danni paese per paese, anche qui si allarga. Ma in dimensione più ridotta: da 94 a 137 comuni, da 256 a 570mila abitanti. I risultati si vedranno: alla resa dei conti l’intera ricostruzione, sulla quale si innescherà il boom degli anni ”80 e ”90, costerà circa 10 miliardi di euro. Poco più di quanto verrà previsto, in questi giorni, per restituire la vita all’Aquila e all’Abruzzo. O di quanto sarà speso solo per il «piano Napoli» del 1980. Ed è infatti la gestione della ricostruzione in Campania dopo il terremoto del 23 novembre 1980 che più dovrebbe mettere in guardia, oggi, gli abruzzesi. Ricordate? Le due scosse di magnitudo 6,4 della scala Richter per una durata complessiva di un minuto e venti secondi fanno 2.914 morti, circa 9mila feriti, 300mila senzatetto. Una catastrofe apocalittica. Che sconvolge, secondo la prima stima, 36 comuni. Presto saliti a 280 e poi su su fino a 687. Per un’area talmente vasta, chiarirà un rapporto di Legambiente, che non solo coinvolge massicciamente Napoli col progetto di fare «in diciotto mesi ventimila alloggi» (ipotesi fallimentare) ma «la punta più avanzata a nord diviene Teano, ai confini con il Lazio, la linea si chiude a sud con Sapri, sul golfo di Policastro, e a est con Ferrandina, nella piana che finisce sullo Jonio ». Vista l’aria che tira il sindaco di Grottolella, in provincia di Avellino, fa ricorso al Tar, «pur di vedere il suo paese incluso tra quelli che hanno subìto ’danni gravi’». Quello di Castellabate, sul mare del Cilento, spiega al «Mattino»: «Ci accusano di sciacallaggio sostenendo che non abbiamo avuti danni dal sisma. Facciamo conto che ciò sia vero, per comodità di discorso. Mi dica lei però chi ci avrebbe salvato dall’accusa di omissione di atti di ufficio per non aver fatto ottenere al paese quello che la legge gli concede». E Ciriaco De Mita, il presidente del Consiglio, arriva ad ammettere in Parlamento che sì, «le pressioni politiche e sociali» hanno condotto a «successivi allargamenti dei Comuni beneficiari delle provvidenze» che non rispettavano «la verità naturale dei fatti». I risultati, come denunceranno la Commissione Parlamentare d’inchiesta presieduta da Scalfaro e il rapporto Ecomafia, saranno disastrosi. «Per ogni vecchia abitazione distrutta dal sisma si ricostruiscono due, qualche volta tre appartamenti». Centinaia di sindaci e assessori fanno contemporaneamente i progetti e i collaudi intascando miliardi. Vengono «inventate» aree industriali assurde come a Isca Pantanelle: due assunti su 287 previsti, al punto che ogni posto «è costato la cifra record di 14 miliardi e 753 milioni». Infiltrazioni camorriste. Omicidi. Regalie incredibili a tanti «furbi» arrivati dal Nord per costruire imprese fantasma. Morale: dieci anni dopo, dicono i dati ufficiali, tantissimi terremotati sono ancora nei container: «a Calabritto (Av) gli interventi finanziati ultimati sono poco più del 10% (148 su 1.126), a Lioni (Av) sono meno del 5%, a Morra de Sanctis solo il 3%. A Sanza sono ultimati solo 4 interventi su 465 finanziati, a S. Mango sul Calore il 13% dei 389 finanziati, a S. Angelo dei Lombardi il 5,6% dei 1568 interventi finanziati». Vanno ricordate, queste storie. Tutte. Soprattutto oggi. Per dire: mai più. Mai più.