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 2009  aprile 19 Domenica calendario

Chi spartisce gioisce, dice un vecchio adagio. Sarà... Ma certo non vale nel caso delle ricostruzioni dopo le catastrofi

Chi spartisce gioisce, dice un vecchio adagio. Sarà... Ma certo non vale nel caso delle ricostruzioni dopo le catastrofi. Al contrario, la storia degli ultimi decenni dimostra che gli aquilani dovranno difen­dersi da un nemico più infido della peste: l’«occasionismo». Che con la scusa di «usare» il disastro come occasione per «una grande rinascita dell’area» potrebbe allargare a dismisura l’area terremotata e disperdere gli aiuti in migliaia di rivoli. Rivoli che, storicamente, hanno finito per premiare i furbi togliendo risorse ai ter­remotati veri. C’è chi dirà che è troppo presto per porre questo te­ma. Che questo maledetto sciame sismico non si è anco­ra placato. Che gli scienziati stanno registrando un conti­nuo spostamento degli epi­centri. Che non è ancora chia­ro cosa sarà della frattura del­la crosta terrestre che si è atti­vata ai piedi del Gran Sasso e dunque è impossibile defini­re oggi i confini della zona di­sastrata. Vero. Il passato, pe­rò, ammonisce che in questi casi occorre stare in guardia. Perché, sul fronte della co­siddetta «economia della ca­tastrofe », ne abbiamo viste di tutti i colori. Due esempi? Li racconta Luciano Di Sopra, l’architetto che firmò la relazione sui danni del terremoto e il pia­no di ricostruzione in Friuli. «Primo caso: dopo la scia­gura del Vajont il governo concesse alle vittime dell’on­da che aveva spazzato via Longarone una serie di bene­fici tra cui l’esenzione plu­riennale dalle tasse e come fi­nì? Che la licenza d’una botte­ga di alimentari di Erto fu ce­duta, compresa la preziosa esenzione in allegato, a un grande supermercato di Li­gnano Sabbiadoro, a 120 chi­lometri di distanza, sul mare. Secondo caso: quale fu il co­mune che chiese il più alto ri­sarcimento danni in rappor­to agli abitanti per il terremo­to in Irpinia del 1980? C’è chi risponderà: Sant’Angelo dei Lombardi. No: Maratea. Che stava a più di centoquaranta chilometri dall’epicentro». Di Sopra, dopo essersi oc­cupato di vari terremoti an­che all’estero, dall’Armenia a Città del Messico, si è fatto un’idea precisa: «Più gli inter­venti sono mirati, più alta è la probabilità di una ricostru­zione rapida, efficace, corret­ta. Più si allargano ’politica­mente’ i confini dell’area in­teressata, più si rischia la di­spersione dei fondi, l’uso clientelare dei soldi, l’infiltra­zione di chi è interessato so­lo a speculare sulla sventura delle popolazioni. Con danni gravissimi a chi è stato più colpito. Delineare correttamente l’area colpita è dunque la scelta fondamen­tale ». Le diverse vicende dei più luttuosi cataclismi degli ultimi decenni questo dico­no: la ricostruzione ha dato i risultati migliori là dove si sono concentrati gli sforzi. L’onda assassina del Vajont, il 9 ottobre 1963, devastò tre comuni: Longarone, Castella­vazzo ed Erto-Cassio. I morti furono 1.917, i senzatetto 9mila. «I gera in leto drio dormir / no’ s’à salvà gnanca un cus­sìn », canta Alberto D’Amico: erano a letto a dormire, non si salvò manco un cuscino. La politica fece una scelta: cogliere l’occasione per rilan­ciare la montagna bellunese minata da secoli di povertà ed emigrazione. Ampliando l’area interessata fino a 18 volte e riconoscendo danni a 42 comuni per un totale di 156mila abitanti. Senza mai rendere giustizia fino in fon­do, neanche in tribunale, co­me ricorda Marco Paolini, a chi aveva perso tutto. Cinque anni dopo, nel Beli­ce, la replica. I comuni deva­stati dal terremoto di 6,4 gra­di della scala Richter la notte del 15 gennaio 1968 sono 13, per un totale di 97mila abi­tanti. A Gibellina, Poggiorea­le, Salaparuta e Montevago i morti sono 370. Ma poco alla volta, in nome della solita «occasione» per «rilanciare» l’area, il perimetro viene al­largato di nove volte fino a interessare una buona parte della Sicilia occidentale per un totale di 850mila abitanti. Col risultato che trent’anni dopo, nella sola Santa Mar­gherita, ci saranno ancora 150 famiglie ospitate nelle baracche. Anche nel Friuli, piegato nel ”76 da un sisma che ucci­de 989 persone, devasta 94 comuni e demolisce 200 in­dustrie, rischia di passare la stessa scelta: perché non co­gliere l’occasione? I friulani dicono no. E Manzano, come raccontavamo giorni fa, arri­va al punto di deliberare in consiglio comunale la rinun­cia ad essere inserito tra i centri terremotati. Certo, la definizione dei confini dell’ area colpita, a mano a mano che si verificano i danni pae­se per paese, anche qui si al­larga. Ma in dimensione più ridotta: da 94 a 137 comuni, da 256 a 570mila abitanti. I risultati si vedranno: alla resa dei conti l’intera rico­struzione, sulla quale si inne­scherà il boom degli anni ”80 e ”90, costerà circa 10 miliar­di di euro. Poco più di quan­to verrà previsto, in questi giorni, per restituire la vita all’Aquila e all’Abruzzo. O di quanto sarà speso solo per il «piano Napoli» del 1980. Ed è infatti la gestione del­la ricostruzione in Campania dopo il terremoto del 23 no­vembre 1980 che più dovreb­be mettere in guardia, oggi, gli abruzzesi. Ricordate? Le due scosse di magnitudo 6,4 della scala Richter per una durata complessiva di un mi­nuto e venti secondi fanno 2.914 morti, circa 9mila feri­ti, 300mila senzatetto. Una catastrofe apocalitti­ca. Che sconvolge, secondo la prima stima, 36 comuni. Presto saliti a 280 e poi su su fino a 687. Per un’area tal­mente vasta, chiarirà un rap­porto di Legambiente, che non solo coinvolge massic­ciamente Napoli col progetto di fare «in diciotto mesi ven­timila alloggi» (ipotesi falli­mentare) ma «la punta più avanzata a nord diviene Tea­no, ai confini con il Lazio, la linea si chiude a sud con Sa­pri, sul golfo di Policastro, e a est con Ferrandina, nella piana che finisce sullo Jo­nio ». Vista l’aria che tira il sinda­co di Grottolella, in provin­cia di Avellino, fa ricorso al Tar, «pur di vedere il suo pae­se incluso tra quelli che han­no subìto ’danni gravi’». Quello di Castellabate, sul mare del Cilento, spiega al «Mattino»: «Ci accusano di sciacallaggio sostenendo che non abbiamo avuti danni dal sisma. Facciamo conto che ciò sia vero, per comodità di discorso. Mi dica lei però chi ci avrebbe salvato dall’accu­sa di omissione di atti di uffi­cio per non aver fatto ottene­re al paese quello che la leg­ge gli concede». E Ciriaco De Mita, il presi­dente del Consiglio, arriva ad ammettere in Parlamento che sì, «le pressioni politiche e sociali» hanno condotto a «successivi allargamenti dei Comuni beneficiari delle provvidenze» che non rispet­tavano «la verità naturale dei fatti». I risultati, come denunce­ranno la Commissione Parla­mentare d’inchiesta presie­duta da Scalfaro e il rapporto Ecomafia, saranno disastro­si. «Per ogni vecchia abitazio­ne distrutta dal sisma si rico­struiscono due, qualche vol­ta tre appartamenti». Centi­naia di sindaci e assessori fanno contemporaneamente i progetti e i collaudi inta­scando miliardi. Vengono «inventate» aree industriali assurde come a Isca Pantanel­le: due assunti su 287 previ­sti, al punto che ogni posto «è costato la cifra record di 14 miliardi e 753 milioni». In­filtrazioni camorriste. Omici­di. Regalie incredibili a tanti «furbi» arrivati dal Nord per costruire imprese fantasma. Morale: dieci anni dopo, dicono i dati ufficiali, tantis­simi terremotati sono ancora nei container: «a Calabritto (Av) gli interventi finanziati ultimati sono poco più del 10% (148 su 1.126), a Lioni (Av) sono meno del 5%, a Morra de Sanctis solo il 3%. A Sanza sono ultimati solo 4 interventi su 465 finanziati, a S. Mango sul Calore il 13% dei 389 finanziati, a S. Ange­lo dei Lombardi il 5,6% dei 1568 interventi finanziati». Vanno ricordate, queste storie. Tutte. Soprattutto og­gi. Per dire: mai più. Mai più.