Gianni Clerici, la Repubblica 18/04/2009, 18 aprile 2009
GIANNI CLERICI PER LA REPUBBLICA
Nell’assistere, questa volta via etere, alla vicenda di un campione semidivino che si allontana, come Federer, non riesco ad ignorare immagini "deja vu", quelle di un altro grandissimo, Bjorn Borg. Era il 1983, e la linea di cipressi che separano visivamente il recinto del Country Club da mare assumeva, per il cattivo tempo, colorazione cupa. Dopo sei anni di dominio, Borg si era imbattuto nel genio del più giovane McEnroe, e la sua convinzione di imbattibilità, dopo 11 Grand Slam, era andata in frantumi, trascinando addirittura al dramma la sua vita privata. Dopo aver superato un primo turno per inferiority complex dell’avversario argentino Clerc, Bjorn venne a trovarsi di fronte un avversario crudele com’è spesso la giovinezza, Henri Leconte. E, sotto i colpi di quel che sarebbe divenuto "Braccio d´Oro", finì di perdere l’aureola di "Più grande di tutti i tempi", titolo abitualmente offerto ai grandissimi da cronisti piccolissimi. La vicenda, come in ogni rispettabile inumazione, era in realtà iniziata più indietro, dalla celeberrima e strafilmata finale di Wimbledon 1980, quello storico tie-break 18-16 per Mac, che Borg era apparentemente riuscito a riparare vincendo il quinto, ma smarrendo la fiducia nella propria qualità sovrumana. Qualcosa di simile può essere accaduto a Roger, anche lui costretto ai dubbi esistenzial-tennistici dall’ultima finale di Wimbledon, contro un altro giovanotto pronto al sorpasso, guarda caso anche lui mancino, anche lui eterodosso quanto Mac, insomma inatteso: Rafa Nadal.
Per rendere ancor più banale la storica vicenda, Roger ha perduto contro Wawrinka che, negli ultimi anni, si vantava con gli amici di aver sottratto vuoi 3, vuoi 4 games al campionissimo, che l’aveva destinato al ruolo di sparring partner, oltre che di compagno di doppio. E chiunque conosca un tantino di tennis sa che, per rappresentare il ruolo di partner di un grande, sono indispensabili doti quali l’ammirata sottomissione e, addirittura, il desiderio di riscuotere la benevolenza del campione. Sinché tali sentimenti non si tramutino in desiderio di riscatto, o addirittura di vendetta. A monte di quel che avrebbe potuto configurarsi quale una sorpresa, una cattiva giornata, un ritardo di forma - Federer era dovuto ricorrere a una wild card per accedere al torneo - rimane un gesto precedente che ha fatto il giro del mondo, tale la sorpresa. Quello di un Federer che spacca una racchetta. Gesto sorprendente in lui, quanto praticatissimo tra altri grandi.
Questo stesso atteggiamento, per chi conosca soltanto il lato pubblico di Federer, gli era stato comunissimo negli anni di formazione, se devo credere a una confidenza di chi fu il suo maestro, l’australiano Peter Carter. L’uomo alla cui morte Roger fu visto piangere nel corso di un intero match degli Australian Open. Le lacrime son ritornate quest’anno, alla fine di un nuovo Australian Open che, secondo me, Roger ha smarrito soprattutto per inferiority complex nei riguardi del nuovo Miglior Tennista di tutti i tempi, come i farisei del computer inizieranno presto a denominare Rafael Nadal. Ora siamo vicini al personaggio del Caro Estinto. C’est la vie.