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 2009  aprile 18 Sabato calendario

MARIO DEAGLIO PER LA STAMPA


Dopo essere rimaste a lungo immobili, le ruote della storia industriale hanno ripreso a girare vorticosamente. Meno di dieci anni fa, Fiat Auto pareva sul punto di diventare una semplice consociata di General Motors; ora, con nuovi modelli, nuovi motori e quote di mercato in crescita, è sul punto di acquisire una partecipazione determinante in Chrysler, un altro grande del mercato mondiale dell’auto.
Quest’inversione a U del gruppo torinese è naturalmente dipesa da molti fattori ma quello più tipico lo potremmo chiamare «fattore L», ossia «leadership». Non c’è dubbio che l’amministratore delegato Sergio Marchionne abbia fatto da elemento catalizzatore del molto di buono che si celava all’interno della Fiat e che abbia esercitato con estrema efficacia e ottimi risultati il suo mandato di ridisegnare il sistema di decisione e di operazione del gruppo. precisamente la presenza congiunta di questo «fattore L» e delle nuove tecnologie della Fiat a convincere molti americani, a cominciare dal loro Presidente, della bontà di un collegamento patrimoniale e operativo - se saranno superate non trascurabili complessità di tipo finanziario e organizzativo - tra Fiat e Chrysler.
A rendere economicamente ragionevole una simile combinazione è il radicale e improvviso mutamento strutturale dell’industria dell’auto. Con la disastrosa caduta mondiale delle vendite iniziata nell’autunno-inverno sembra essersi spezzata una molla psicologica che da molti decenni poneva l’acquisto dell’auto in cima alle priorità della famiglia media in tutti i Paesi avanzati. La domanda di auto sta ora tornando in Europa verso livelli normali, ma con modalità diverse: si richiedono, oltre a formule finanziarie flessibili e «leggere», auto più piccole, motori più puliti, costi più contenuti. E proprio in questi aspetti oggi importanti della produzione la Fiat può vantare al suo attivo sia una lunga tradizione sia un importante (e spesso trascurato) impegno di ricerca; quest’ultimo aspetto dovrebbe indurre a un certo ripensamento chi ritiene che dalle università italiane e dai laboratori delle industrie italiane non esca ormai più nulla di importante.
Le nuove tecnologie fanno sì che per produrre un’auto sicura, ecologica e di prezzo contenuto, i componenti base debbano essere comuni a molti modelli e che i costi fissi debbano essere spalmati su milioni di esemplari. Questo ha indotto lo stesso Marchionne, in un’intervista di qualche mese fa (dal titolo significativo: «La festa è finita») a stimare in 5,5-6 milioni di auto all’anno la dimensione minima per una valida presenza industriale; questa dimensione lascerebbe in vita solo sei produttori mondiali. Non è detto però che produzione e proprietà coincidano perfettamente: l’orizzonte dell’auto dei prossimi decenni non sembra più dominato da grandi imperi industriali, rigidamente governati dal centro, ma piuttosto da un sistema di alleanze, dotate di una certa flessibilità e caratterizzate, al di là della dimensione tecnologico-produttiva, da un rilevante grado di autonomia dei partecipanti. Qualcosa di simile, del resto, si è già visto con l’intesa, raggiunta dieci anni fa, tra la francese Renault e la giapponese Nissan.
In questo ridisegno strutturale dell’industria mondiale dell’auto, è significativo che un ruolo importante spetti al sindacato che, alla Chrysler, ha ancora una sorta di un diritto di veto sull’accordo stesso. L’intesa nuovo management-sindacato, così come l’intesa nuovo management-proprietà (che, in questo caso, implica indirettamente il governo degli Stati Uniti) appaiono essere le due strutture portanti necessarie per qualsiasi accordo che consenta di eliminare le molteplici inefficienze produttive del colosso americano. Del resto alla Fiat Marchionne si è mosso in questo senso, con una ricetta che implica poca retorica e impegni concreti e rispettati, e così aveva fatto anche nel suo precedente incarico ad Alusuisse che implicò una difficile intesa con il potente sindacato tedesco IG Metall.
Essere il «cuore» di una nuova grande alleanza industriale a livello mondiale non potrà certo modificare le prospettive immediate di Torino e delle industrie fornitrici dell’auto in Italia; allarga però in maniera inaspettata i loro orizzonti di attività. Se poco cambierà nei prossimi trimestri, le prospettive dei prossimi lustri - e quindi le prospettive di vita dei giovani, soprattutto di quei neolaureati che faticano a trovar lavoro di questi tempi - saranno radicalmente migliorate. Non certo nel senso che ci sia dietro l’angolo una vittoria certa ma nel senso che c’è ancora una partita da giocare e che, se si vince questa partita, si rimane in Serie A.
La stretta finale per il possibile accordo Fiat-Chrysler avviene mentre altre grandi imprese italiane si proiettano su un orizzonte mondiale. Sarà stata una sorpresa per molti scoprire tra le notizie di questi giorni che le Generali sono il primo assicuratore in Cina, mentre Eni, Enel e Finmeccanica intessono una fitta rete di accordi mondiali e molte imprese medie stanno percorrendo il medesimo cammino. Siamo di fronte a un rivolgimento imprevisto nella grande «battaglia industriale» che ha fatto seguito al tramonto del primato indiscusso degli Stati Uniti e all’apertura di un nuovo fronte in cui molti Paesi, Stati Uniti compresi, si trovano a cercare di trovare nuovi equilibri. Tutto ciò sta proiettando improvvisamente sulla linea del fuoco, con un’arma carica in mano, chi sembrava destinato a rimanere nelle retrovie.