Gabriella Jacomella, Corriere della Sera 18/4/2009, 18 aprile 2009
MILANO
Peter Sunde, 31 anni, alias «Brokep»: colpevole. Gottfrid Svartholm, 24 anni, alias «Anakata»: colpevole. Fredrik Neij, 31 anni, alias «TiAMO»: colpevole. Condannati a un anno dietro le sbarre e a una multa da 675 mila euro a testa. Ma com’è, allora, che sulla homepage di The Pirate Bay c’è una faccina sorridente e la scritta «dont’worry, andrà tutto bene»? E com’è che il sito più famoso al mondo e più amato (dagli «scaricatori » di musica, film, videogiochi gratis) e odiato (dai colossi del cinema e dell’industria discografica) del mondo è ancora lì e funziona alla perfezione?
L’avevano definito il «processo del millennio»: i difensori del copyright – 17 major, dalla Sony alla Universal, capitanate dalla International Federation of the Phonographic Industry – contro i corsari del Web. Tre giovani svedesi che dal 2003 solcano gli oceani virtuali, apertamente schierati in difesa della libertà d’espressione, refrattari a ogni regola precostituita. Il loro vascello si chiama The Pirate Bay (Tpb), il maggiore «indicizzatore » di file torrent del Web; per intenderci, quelli più utilizzati per scambiarsi materiale via Internet. Il sito funziona come un elenco telefonico: tu mi dici cosa cerchi, io ti do l’indirizzo a cui trovarlo. Sul vascello, nessun materiale illegale. Solo gli strumenti per reperirlo. A febbraio, Tpb registrava 22 milioni di utenti simultanei. Alle 11 di ieri, la Corte distrettuale di Stoccolma ha deciso: i tre pirati’ e con loro, l’industriale Carl Lundström, ceo di Rix Telecom, tra gli sponsor di Tpb (le cui entrate pubblicitarie bastano appena per le spese di gestione) – sono colpevoli di aver «fornito assistenza nel rendere disponibili materiali protetti da diritto d’autore». I file contestati sono 33. Nel corso del dibattimento, l’accusa non era riuscita a dimostrare che tra utenti e gestori ci fosse un rapporto tale da rendere questi ultimi corresponsabili del reato. Ma per la Corte, più dei dettagli tecnici hanno contato le intenzioni. Di cui gli stessi corsari, del resto, non hanno mai fatto mistero.
Una sentenza di 107 pagine, una condanna esemplare: per la cifra del risarcimento – 30 milioni di corone (l’accusa ne aveva chiesti 117), pari a 2,7 milioni di euro – e per quei 12 mesi dietro le sbarre. «Non penso di finire in prigione – replica serafico Peter Sunde ”. Questo è solo il primo grado, ci vorranno 4-5 anni per la sentenza definitiva. In futuro avremo giudici più preparati sul piano tecnico. E vinceremo ». Di tutt’altro avviso John Kennedy, presidente della Ifpi: «Siamo molto soddisfatti; è un messaggio forte, sia dal punto di vista educativo che come deterrente». Per Enzo Mazza, presidente della Fimi (Federazione industria musicale italiana), «il tribunale sembra avere accolto in pieno le prove, dando un efficace segnale che l’illegalità non è tollerata ». Gli imputati, da parte loro, rilanciano: «Faremo tutti ricorso» sbotta il difensore di Svartholm, Ola Salomonsson. E Peter Althun, l’avvocato di Sunde, ricorda sdegnato che il suo assistito «ha saputo della condanna da un giornalista, un’ora prima della sentenza. Devo riflettere sugli effetti di questa fuga di notizie». Causa in vista? Chissà. Il sito, nel mentre, resta – come si diceva – vivo e attivo; la condanna non ne autorizza l’oscuramento. Tanto più che, stando alla difesa, l’80% dei file scambiati dai suoi utenti sarebbe legale.
E in molti, sulla Rete, sottolineano come altri motori di ricerca (Google incluso) ospitino i famigerati torrent: «Se ora qualcuno citasse in giudizio Google – ridacchia Sunde – sarebbe davvero divertente ».
Nella Baia dei Pirati, il clima è quello di sempre: goliardico e un po’ guascone. «Come in ogni buon film – scrivono i corsari – gli eroi perdono all’inizio, ma poi c’è una vittoria epica. l’unica cosa che Hollywood ci abbia insegnato ». Su Twitter, Peter Sunde rassicura i naviganti: «Mantenete la calma. Non succederà niente a Tpb, a noi o al file sharing. solo un teatrino per i media». Mezz’ora dopo, in conferenza stampa dalla sua casa di Malmö («Nessuno di noi era a Stoccolma, oggi. Gli altri non vivono più in Svezia e io la odio, Stoccolma») scriverà su un foglio di carta: «I owe u 30.000.000 Skr, vi devo 30 milioni di corone». Poi, in piccolo: Just kidding, stavo scherzando. E facendo ciao alla videocamera: «Tra un’ora inizierà il party, io farò il dj. Vi aspetto». Chissà: forse i pirati, prima di saltare dall’asse nelle fauci dello squalo, si divertono così.
Gabriela Jacomella
***
«Inondiamo i discografici di mail» La protesta riparte dai blog
Su Facebook in 126 mila per «Free the Pirate Bay». L’attore Fry su Twitter: sto con loro
Innanzitutto la solidarietà, perché i ragazzi di Pirate Bay «sono simpatici» e «rappresentano una nuova idea di rivoluzione». Poi la protesta, perché «cercare di imporre regole alla rete è un po’ come pretendere di violare le leggi della fisica». A seguire la voglia di reagire con un’azione eclatante, in stile net strike, la protesta elettronica collettiva: «Inondiamo di mail le case discografiche che ora gongolano». Infine il ritorno alla realtà: «Non cambierà nulla, già oggi in rete ci sono molti altri spazi e altre piattaforme per chi vuole condividere file e documenti».
La sentenza di condanna per i «Pirati » ha messo in movimento il web. Nei principali social network, non appena la notizia si è diffusa, è diventata l’argomento più gettonato. Il motore di ricerca di Facebook, digitando il nome del motore di ricerca incriminato, recupera 425 voci. E tra queste, in cima alla lista, piazza «Free The Pirate Bay», un gruppo che è arrivato a sfiorare i 126 mila iscritti, di cui più di 3.500 aggiuntisi ex novo solo nella giornata di venerdì. Su Twitter, il sito di microblogging che consente agli utenti di pubblicare messaggi lunghi fino a 140 caratteri, i minipost dedicati alla sentenza di Stoccolma si sono susseguiti a ciclo continuo nella timeline generale, facendo sì che Peter Sunde e la sua ciurma raggiungessero presto la vetta dei « trending topics », gli argomenti più in voga del momento, scalzando dal top Susan Boyle, la «bruttina dalla voce d’usignolo» (una donna inglese che ha ottenuto un successo planetario partecipando a uno show in stile Corrida) che da alcuni giorni stava letteralmente facendo impazzire il web. E non è tutto: la video conferenza stampa messa online dai curatori del sito ha toccato le 210 mila visualizzazioni nello spazio di poche ore. Numeri ancora parziali, che per questioni di fuso orario ancora non tengono conto di tutte le reazioni dagli States. Ma che danno comunque il senso della portata della decisione dei giudici svedesi.
Ci sono anche le voci fuori dal coro, quelle di chi dice che in fondo, pur se perpetrato in nome del «diritto alla cultura », il download di film e brani musicali in barba ai diritti d’autore è comunque un furto. Ma la sentenza, per quanto fosse attesa, sembra avere provocato perlopiù la rabbia dei cybernauti. In Gran Bretagna, Paese dove il pronunciamento dei giudici ha avuto una significativa eco, è sceso in campo anche il Times
che nella sua edizione online ha subito pubblicato un’analisi di Tom Whitwell, giornalista esperto di musica e di rete, esaustiva già nel titolo: «La sentenza non è un deterrente». Perché coloro che scaricano abitualmente file dal web «non si sentono fuorilegge», perché non fanno opera di copiatura con l’intento di delinquere, bensì perché questo «è solo il modo più semplice» per acquisire musica e video. «La sola vera minaccia alla pirateria online – fa notare Whitwell – negli ultimi anni non è arrivata da azioni legali o campagne educative, bensì dal successo di iTunes », il sito lanciato da Apple per scaricare legalmente a basso costo singoli brani musicali o interi cd, il cui esempio è stato poi imitato da diverse altre piattaforme.
Proprio l’elevato costo di dvd e cd è il pretesto rivendicato in molti blog e nei commenti a margine dei pezzi pubblicati dai media online per giustificare il download illegale di file da Internet. «Perché non posso comprare a 2 euro Barry Lyndon di Kubrick del 1975 completo di sottotitoli in varie lingue – si chiede ad esempio pockerdassi71 sul Corriere.it ”? Anche questo è rendere fruibile la cultura». «La vittoria – aggiunge Archangelsk – sta nell’abbassare i prezzi: l’altro giorno al centro commerciale c’erano innumerevoli dvd con film anche recenti che costavano 7-8 euro. Ecco il vero scacco alla pirateria». Ma c’è anche chi, come Teddy P. sull’edizione internazionale di Wired, rivista specializzata nelle nuove tecnologie, vede nel peer-to-peer (lo scambio, appunto, di file tra computer connessi alla rete) un modo per non trovare sgradite sorprese: «Scarico regolarmente musica attraverso i torrents (i programmi che permettono lo scambio, ndr) e lo faccio come preview: se i brani del cd mi piacciono, poi lo compero. Altrimenti rinuncio». Ma non saranno in molti a pensarla come lui: chi scarica un brano musicale o un film senza pagare un centesimo di solito si sente semplicemente in diritto di farlo.
Stephen Fry, attore britannico noto per avere interpretato Oscar Wilde nell’omonimo film e per una parte in Harry Potter e il calice di fuoco, ha preso le difese di Pirate Bay e lo ha fatto con un messaggio via Twitter: «Poveri pirati! Facendo parte di questa industria ed essendo titolare di copyright non dovrei tifare per loro. E invece lo faccio. Dare loro dei ’ladri’ non aiuta. Anche io ho ’rubato’ nell’era delle cassette». Mal gliene incolse, come lui stesso ha spiegato in un secondo post, a breve distanza dal primo: «Adesso sono in seri guai con i miei colleghi, le tv mi stanno già chiamando per commentare». Anche Mike Skinner, il rapper uk dei The Streets, era un «sorvegliato speciale» della rete, essendo un twitter di lungo corso e avendo provveduto, proprio attraverso al microblogging, a diffondere gratuitamente alcuni suoi brani. Ma chi si aspettava prese di posizione a favore del download assoluto è rimasto deluso: «Penso che l’idea che la musica debba essere gratuita sia sbagliata. Gli artisti devono vendere musica, seppure a prezzi bassi» ha scritto ai suoi oltre 21 mila followers.
Ma siamo solo agli inizi. I principali blog di opinione non hanno ancora incominciato a occuparsi sul serio delle conseguenze della vicenda. In Italia c’è chi chiede aiuto a Beppe Grillo e per farlo infila qualche commento nel blog del comico genovese a margine di post che riguardano tutt’altro. Come Alfonso Baroni: «Inizia l’era della santa inquisizione cibernetica, spariamo tutti i byte che abbiamo sulle case discografiche»; o un utente che si firma Pirate Bay supporter: «Seguiamo questa cronaca di limitazione delle libertà, dove chi pubblica un link viene costretto a chiudere per sottostare a leggi illogiche».
Alessandro Sala