Fabrizio Gatti, L’Espresso, 23 aprile 2009, 23 aprile 2009
FABRIZIO GATTI PER L’ESPRESSO 23 APRILE 2009
Non vogliamo sparire Dopo il dolore per la tragedia, adesso gli sfollati temono di perdere il lavoro. E di dovere lasciare l’Abruzzo. Perché l’emergenza rischia di azzerare la loro vita
Adesso fa paura il vuoto. Fanno paura le strade deserte, le vie spettrali attraversate dai cani di casa diventati randagi. Fanno paura gli uffici crollati. Fa paura la schiera di saracinesche abbassate, di negozi sventrati, di fabbriche chiuse. Dentro questi sguardi del dopo terremoto, riappare un incubo che L’Aquila e la sua provincia già hanno conosciuto. la fuga da un futuro senza lavoro. Si chiama emigrazione. Sarà un altro strappo che, come le scosse di questi giorni, andrà a lacerare affetti, famiglie, ambizioni. Una storia già vissuta da queste parti.
successo dopo il grande sisma di Avezzano nel 1915. Si è ripetuto dopo lo sciame di scosse del 1961-62. E ora lo dicono i numeri dell’economia. Ventisettemila studenti rimasti senza la loro università, bombardata dai crolli la notte del 6 aprile. Metà delle aziende danneggiate. Trentamila lavoratori fermi. Milleottocento attività commerciali chiuse. Un’angoscia che l’aiuto dei volontari-eroi arrivati da tutta Italia e nemmeno l’esagerato ottimismo del premier Silvio Berlusconi possono placare. Eppure, prima del disastro, nonostante le pesanti conseguenze della crisi mondiale, questo cuore d’Abruzzo che ha spedito emigranti in quattro continenti, era riuscito a riscattarsi. Sempre meno profondo Sud. Sempre più villaggio globale. Gli universitari da tutto il mondo. L’agricoltura naturale. Il turismo via Internet. Le location per il cinema. Lo confermava il rapporto Svimez 2008, la pagella statistica dell’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno. Anche se i sintomi della crisi internazionale erano già arrivati da tempo azzerando il polo elettronico. E spingendo centinaia di lavoratori a lasciare L’Aquila e a tornare nei loro paesi d’origine. L’ennesima migrazione interna, regionale, silenziosa. Queste famiglie colpite dalla disoccupazione avevano risolto la mancanza di reddito aggrappandosi all’università. Se ne erano tornate nei paesi della provincia proprio per subaffittare agli studenti la casa in città. E tanto bastava a vivere o ad arrotondare la paga di lavori temporanei nell’agricoltura o nell’edilizia.
La paura per un futuro che si è dissolto la vedi negli occhi di Cristian P., 30 anni, meccanico di Pizzoli, paese sulle alture a nord dell’Aquila. La mattina di martedì 14 aprile la sua tensione esplode in grida e proteste contro il sindaco, Giovannino Anastasio, 47 anni. Il parapiglia interrompe la riunione operativa in municipio tra protezione civile, esercito e soccorritori. Cristian P. viene calmato a fatica dal vicequestore Antonio Adornato e da due poliziotti. Il verbale depositato in questura è pieno di comprensione per una situazione drammatica. Cristian P., dopo nove notti in auto con la sua famiglia, chiede una tenda. La vorrebbe montare accanto alla sua officina, dove vuole continuare a lavorare. Così da avere un riparo per sé, la moglie e il loro bimbo di diciotto mesi. La terra continua a spremere i nervi. In alcuni momenti del giorno e della notte ci sono un botto e una scossa ogni dieci minuti. Nessuno va a dormire in casa. Pizzoli è lontana dalle parate di vip e politica. Nella seconda settimana dopo il terremoto la banca e la posta sono ancora chiuse. Non ci sono uffici mobili. E senza la possibilità di prelevare contante, è impossibile andare fuori dalla zona del disastro a fare la spesa, a comprare latte o pannolini per il bimbo. "Nemmeno si può pretendere che i soccorsi forniscano una tenda personale a ogni famiglia", spiegano i poliziotti al meccanico che ha il terrore di perdere il lavoro.
Goriano Sicoli, 620 abitanti e cento sfollati, è a 55 chilometri a Sud dell’Aquila e al secondo terremoto in 25 anni. Le tende del ministero dell’Interno hanno impiegato sette giorni ad arrivare. La protezione civile qui si è vista in ritardo. Così come in altri cinque comuni della zona: Castel di Ieri, Castelvecchio Subequo, Molina Aterno, Galliano Aterno, Secinaro. Il terremoto da queste parti ha fatto soltanto danni e fino a giovedì 9 aprile nessuno ha ascoltato le richieste dei sei sindaci che chiedevano aiuto per i senzatetto. Sandro Ciacchi, 51 anni, a capo di una lista civica di centrodestra non si scompone: "Siamo nella parte più interna dell’interno dell’Abruzzo. Siamo abituati a essere dimenticati", dice il sindaco di Goriano. dura resistere alla fuga per un Comune con poche centinaia di abitanti. Era dura già prima del terremoto. Hanno dovuto vedersela con il ministero dell’Istruzione che voleva chiudere la scuola elementare. Poi con le Ferrovie che progettavano di sopprimere la stazione lungo la storica Roma-Pescara. Poi con il comando dei carabinieri che intendeva cancellare la caserma. E anche con Poste italiane che stava per sbarrare gli sportelli. "Le case hanno resistito. Ma in un colpo solo, il terremoto ha distrutto la scuola, la stazione, la caserma, l’ufficio postale", racconta Ciacchi, "e adesso se ci chiudono scuola, stazione, caserma e posta, la gente come fa a rimanere? L’emigrazione è un pericolo che corriamo. Come numero di abitanti, contiamo meno di un condominio di Roma. Ma siamo una storia, una cultura. Non vogliamo essere cancellati dal terremoto. Gli abitanti resteranno se ci ridaranno le strutture che abbiamo perso. I comuni non vanno impoveriti. Siamo noi il presidio del territorio".
In cima al paese rischia di abbattersi sul centro storico il colossale campanile, immortalato nel 1929 nella prima litografia dell’incisore olandese Mauk Escher. Anche il santuario di Santa Gemma sta per crollare sull’unica drogheria. E da lunedì 6 aprile il paese è senza negozio di alimentari. La scuola era caduta già per le scosse del 1984. L’hanno ricostruita con norme antisismiche, avevano promesso. Ed è crollata un’altra volta. "Meno male che il terremoto è arrivato di notte", dice Nino Cifani, 70 anni, ferroviere in pensione e cuoco volontario nella tendopoli. Nonostante l’isolamento geografico, i bambini sono una quarantina. Solo che per frequentare la scuola media bisogna fare già i pendolari verso Castelvecchio, a qualche chilometro. E per continuare gli studi, le mete più vicine sono L’Aquila o Sulmona. L’emigrazione la si impara da giovani. Il saldo demografico di questi paesi negli ultimi anni è rimasto stabile grazie all’immigrazione straniera. Senza la presenza di trenta macedoni, gli abitanti di Goriano sarebbero scesi sotto quota 600. Subito prima della Seconda guerra mondiale erano 1.500. E fino al 1951, poco più di mille 300. Da allora almeno due generazioni sono partite. La colonia più grossa ora vive a Vancouver, in Canada.
Salendo verso L’Aquila, ecco Molina Aterno, che nel 1910 aveva 1.200 abitanti e ora 450. Il sindaco Luigi Fasciani, 44 anni, spera che l’economia riparta subito: " l’unico rimedio alla possibilità che le persone ricomincino a partire". Roccapreturo, Castelvecchio Calvisio, Carapelle, il più piccolo comune d’Abruzzo, che il terremoto ha soltanto schiaffeggiato con qualche lesione, sono paesi fantasma. Svuotati dall’emigrazione del miracolo italiano e ora dalle scosse continue che hanno spinto i pochissimi residenti verso le tendopoli. Sotto le tende di Fontecchio, 350 abitanti oggi e 1.700 sessant’anni fa, si è rifugiato Filippo Ciancone, 38 anni, direttore della Confesercenti della provincia dell’Aquila. "Direttore senza più ufficio. crollato", dice. Ciancone è contrario al progetto di trasferire L’Aquila e gli abitanti dei paesi più piccoli come Onna e Paganica in una ’new-town’, così come l’ha chiamata Berlusconi, la nuova città. "Una new-town richiede tempo", prevede il direttore di Confesercenti, "aspettare otto mesi senza fare nulla significa costringere le imprese a spostarsi sulla costa o a chiudere. E il centro dell’Aquila sarà morto per sempre. Il progetto della new-town può andare bene solo ai palazzinari che già hanno fatto del male alla città costruendo brutture che ora sono crollate".
Prima della gente, dall’Aquila stanno per emigrare gli uffici pubblici. Come Inps e Inail, che le direzioni centrali vorrebbero trasferire ad Avezzano. "Sarebbe un errore gravissimo. Bisogna restare", insiste Filippo Ciancone, "gli uffici vanno riaperti al più presto dentro i container. Con una connessione satellitare si arriva ovunque. Se gli uffici vanno ad Avezzano, le imprese andranno ad Avezzano. Anche dare ai commercianti licenze stagionali a Pescara è una fesseria. Perché una volta che scoprono che al mare si incassa in un mese quello che a L’Aquila si guadagna in un anno, non torneranno più. E la città muore". Cosa fare allora? "Come hanno fatto a Spoleto. Aspettare la fine dei terremoti, puntellare i palazzi puntellabili e riaprire bar, negozi e attività al più presto. Altrimenti nessuno tornerebbe ad abitare in un centro morto".
Per molti la paura è la povertà. La perdita di uno standard dignitoso di vita. Il terremoto non ha solo ucciso. Ha anche rimescolato lo status dei sopravvissuti. Nelle tende bisogna adattarsi. Anche nelle minime cose. A cominciare dall’impossibilità di fare una doccia quando si vuole, perché solo in poche tendopoli ci sono le docce. La mattina ci si mette in coda per lavarsi i denti, pettinarsi o farsi la barba davanti all’unico specchio. Molti anziani sanno che se la ricostruzione ritarda, non rivedranno più il mondo di benessere che avevano conquistato: "Mi sembra di essere tornato a fare il soldato", sorride con amarezza un ultraottantenne nella tendopoli di Centi-Colella, gestita dalla Croce Rossa militare alle porte dell’Aquila, una delle poche con docce e specchio sopra ai lavandini.
Le associazioni degli industriali e degli artigiani abruzzesi chiedono l’estensione della cassa integrazione alle piccole imprese. E all’Unione Europea di concedere aiuti alla provincia dell’Aquila come già accade per Polonia e Moldavia. Le aziende con meno di 15 dipendenti sono 21 mila. Quelle oltre i 15 dipendenti, 380 per un totale di 13 mila operai. Chi però ha meno di trent’anni e ha sempre fatto lavori di fortuna difficilmente starà ad aspettare. Come Sandro Coletti, 27 anni, un fratello a Brescia e uno in Abruzzo, laurea in Scienze della comunicazione e specializzazione in corso a L’Aquila in una università che non esiste più. Lui, i suoi genitori, la sua casa sono sopravvissuti al terremoto che a Villa Sant’Angelo ha ucciso 17 persone su 400 abitanti. "Lavoravo come guida turistica alle grotte di Stiffe. Ma adesso", domanda, "quanti turisti verranno ancora? Io spero di non dover partire. Prima dovrò risolvere il problema di come finire gli studi. E poi... chi non ha ancora un lavoro, sicuramente dovrà andare via".
Tra Villa Sant’Angelo e le macerie di Onna, il sole asciuga il fango nella tendopoli di Fossa, dove la scossa del 6 aprile ha ucciso quattro persone tra cui una bimba moldava di 3 anni. Nel cimitero del piccolo paese, 720 abitanti di cui 90 stranieri di diciassette nazionalità, è sepolto un uomo che fino alla fine degli anni Sessanta ha aiutato a partire migliaia di abruzzesi. Domenico Calvisi, classe 1922, prigioniero e invalido di guerra, era il subagente di un certo Celidonio da Sulmona. Insieme curavano le pratiche burocratiche per gli aspiranti emigranti. "Mio padre aveva una Fiat 1100, poi una 124", racconta il figlio Luigi, 53 anni, medico: "Accompagnava a Napoli quelli che dovevano partire in nave verso l’America. Andavano soprattutto in Venezuela. E portava a Roma all’aeroporto gli abruzzesi che emigravano in Australia. Mio padre era un autodidatta. A chi voleva, prima di partire dava lezioni di inglese. L’aveva imparato durante la prigionia in Africa". Luigi Calvisi è anche sindaco di Fossa. E per scongiurare una nuova emigrazione guarda al turismo straniero e al cinema italiano. "Prima del terremoto sessanta inglesi erano venuti a Fossa a comprare vecchie costruzioni da ristrutturare come case di vacanza", dice il sindaco: "Gli inglesi ora vogliono fare donazioni. E grazie al compositore Carlo Crivelli e all’Orchestra città aperta, il teatro di Fossa è stato scelto per registrare le colonne sonore del cinema italiano. Ricominceremo al più presto".
Le antiche case di Ripa si aggrappano alla montagna appena sopra la valle del fiume Aterno, la piana delle faglie attive e di questi terremoti senza fine. Le strade sono così vicine alle nuvole nere che le si possono respirare. Strade deserte, saracinesche abbassate. Il paese è rimasto uno scheletro, la vita è fuggita. Se ne sono andati tutti. Tre bastardini vengono incontro curiosi. Hanno fame. Cani domestici dimenticati quassù dai loro padroni. All’improvviso abbaiano. Camminano in ogni direzione e ritornano, come se non sapessero più dove nascondersi. I loro latrati sono un brivido. La botta arriva come un colpo di artiglieria sotto i piedi. Trema l’asfalto, vibrano le facciate dei palazzi spenti, dondolano i lampioni. così giorno e notte, anche adesso, in questo momento.