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 2009  aprile 16 Giovedì calendario

QUANDO I CLANDESTINI ERANO ITALIANI : IL PASSATO RIMOSSO COME UNA COLPA


Quando gli emigranti eravamo noi, non tanto tempo fa, il co­mune di Giaglione, in Val di Su­sa, arrivò a chiedere aiuto alla prefettura di Torino «non avendo più ri­sorse per dare sepoltura ai clandestini che morivano nell’impresa disperata di valicare le Alpi». Ogni notte, scriveva il «Bollettino quindicinale dell’emigrazio­ne » nel 1948, passavano da lì in Francia, illegalmente, «molto più di cento emi­granti ».

Erano in tanti, a lasciarci la pelle. «Due o tre al mese, almeno» dice il rap­porto di un agente del Sim, soltanto su quelle montagne dalle quali si scendeva verso Modane. Al punto che il sindaco di Bardonecchia, Mauro Amprimo, fu co­stretto ad affiggere un manifesto per invi­tare le guide alpine (gli «scafisti» della montagna) a essere meno ciniche: «An­che se compiono azione contraria alla legge, sappiano almeno compierla obbe­dendo a una legge del cuore (...) sceglien­do altresì condizioni di clima che non sia­no proibitive e non abbandonando i di­sgraziati emigranti a metà percorso».

 uscito un libro, su quella nostra di­sperata epopea. Si intitola Il cammino della speranza (come il film di Pietro Ger­mi ispirato alla copertina della Domenica

che illustra la pagina), l’ha scritto Sandro Rinauro (Einaudi, pagine 442, e 35) e par­la dell’«emigrazione clandestina degli ita­liani nel secondo dopoguerra».

Come andasse «prima» un po’ si sape­va. Basta ricordare uno studio di Adriana Lotto secondo cui nel 1905 su quattro ita­liani al lavoro nell’Impero tedesco solo uno era registrato e gli altri tre erano «clandestini in senso stretto». O la rela­zione di Stefano Jacini jr alla Camera nel 1922: «Alla frontiera del colle di Tenda ogni notte decine e decine di lavoratori, per non dire centinaia, passano clandesti­namente la frontiera». Il libro di Rinauro toglie il fiato. E spaz­za via definitivamente (sventagliando 258 note bibliografiche per il solo capito­lo terzo) uno dei luoghi comuni intorno alla differenza «fra noi e loro». Ha detto Carlo Sgorlon: «Gli immigrati italiani, e quelli friulani in particolare, non erano mai clandestini. In genere erano grandi lavoratori, rispettavano le leggi locali, ra­ramente protestavano, non si ribellavano mai. Subivano quarantene, vaccinazioni, controlli di ogni genere». Non è così. Me­glio: era «anche» così, ma non solo. Ac­canto a quella «assistita» che «prevedeva il reclutamento degli emigranti da parte degli Stati d’esodo e di destinazione me­diante accordo bilaterale» e radunava quanti volevano andarsene (aspirazione che per un sondaggio Doxa del 1952 ani­mava perfino il 56% dei giovani lombar­di) nei centri di smistamento dove c’era «la selezione medica e professionale», c’era infatti l’«altra» emigrazione: illega­le. Ed erano soprattutto lombardi, vene­ti, piemontesi, friulani.

Certo, ci sono un mucchio di differen­ze tra l’emigrazione di allora e di oggi. Il mondo intero era diverso. Al punto che Charles de Gaulle, che amava come nes­sun altro la Francia ma sapeva quanto avessero contato nella storia patria il ligu­re Léon Gambetta, il piemontese Paul Cé­zanne (Paolo Cesana) o il veneto Emile Zola, si spinse a incoraggiare l’immigra­zione «al fine di mettere al mondo i 12 milioni di bei bambini di cui necessita la Francia in 10 anni».

Chiudeva un occhio, Parigi, in certi an­ni, sui clandestini. Come lo chiudevano i governi tedeschi, belgi... Perché, certo, le ripetute sanatorie urtavano l’Italia che cercava, attraverso gli accordi, di argina­re lo sfruttamento dei suoi emigranti. Ma l’economia reale badava al sodo e, spiega Rinauro, l’immigrazione illegale era «il meccanismo di elasticità che per­metteva alla rigida politica ufficiale del­l’immigrazione di adeguarsi a qualunque congiuntura». Pochi esempi? In Germa­nia «nel 1959 entrarono mediante la sele­zione ufficiale 24.000 lavoratori italiani a fronte di 25.000 emigranti ’spontanei’». In Lussemburgo si inserirono illegalmen­te oltre un quarto degli immigrati tricolo­ri del 1958. Il Belgio era pieno di italiani clandestini espatriati «per il 50%» dalla Francia. E perfino la Svizzera, stando a un rapporto del ministero del Lavoro del 1954, era così permeabile che i «recluta­menti irregolari da parte delle ditte elveti­che » erano «il più alto contingente del movimento migratorio italiano per la Svizzera». Ma come: più irregolari che re­golari? Sì. «Considerando che tra il ”46 e il ”61 la media delle entrate annue degli italiani ufficialmente registrate si aggira­va sulle 75.000 – scrive Rinauro – si può avere un’idea sia pure imprecisa del­la grande entità dell’afflusso illegale».

Ma a gelare il sangue sono i dati fran­cesi: «Del campione de­gli italiani giunti dal ”45 nella regione parigi­na intervistati nel 1951-52 dalla famosa in­chiesta dell’Institut na­tional d’études démo­graphiques sull’immi­grazione italiana e po­lacca in Francia, ben l’80% era entrato senza contratto di lavoro, cioè clandestinamente o da ’turista’». Per non dire di chi lavora­va nell’agricoltura. «Secondo il direttore della Manodopera straniera del ministe­ro del Lavoro, Alfred Rosier, alla fine del 1948 dei 15.000 italiani presenti nel dipar­timento agricolo del Gers, ben il 95% era irregolare o clandestino». Quanto ai fami­liari, «emigrò illegalmente» addirittura «il 90%». Solcando le Alpi, ad esempio, al di là della Val d’Isère fino a Bourg-Sa­int- Maurice dove nel settembre 1946 «ne arrivavano mediamente 300 al giorno, ma toccarono addirittura le 526 unità in una sola giornata».

Abbiamo dimenticato tutto, rimosso tutto. Anche quelle copertine della Dome­nica che raccontavano le tragedie di chi non ce l’aveva fatta.

Come una donna che «sorpresa dalla tempesta di neve vide il suo bambino spi­rarle tra le braccia, proseguì per qualche tratto e infine cadde esausta con l’altro figlio: i tre corpi furono trovati due gior­ni dopo».