Raffaella Polato, Corriere della sera 16/4/2009, 16 aprile 2009
MARCHIONNE: MI DIVIDERO’ TRA TORINO E DETROIT
Il colpo d’acceleratore c’è. Non è detto sia tale da portare a una firma già per giovedì prossimo, 23 aprile, giorno di consiglio a chiusura di un trimestre che Sergio Marchionne definisce con una sola parola: «Duro». Sarà però anche «il peggiore del 2009». Per cui, in fondo, a Torino lo considerano ormai archiviato. Sigillarlo con il primo passo della «nuova Fiat», quella che guarda all’asse con Detroit, avrebbe quindi un valore più che simbolico. Ma, coincida o no con le ore del board, la sigla sull’operazione Chrysler appare sempre più vicina. E non solo perché la scadenza è comunque dietro l’angolo, a fine mese.
Ci sono tutte le cautele del caso, al Lingotto, e non sono puramente formali. Anche se il via libera di Barack Obama è considerato dal mondo dell’auto come la vera garanzia passe-partout al matrimonio, l’accordo può pur sempre saltare: siamo nella fase più dura del gioco (dopo la trattativa con la task force della Casa Bianca), ed è l’amministratore delegato Fiat a dire senza mezzi termini che, se i sindacati americani e canadesi non accetteranno i previsti tagli al costo del lavoro, «noi siamo assolutamente pronti a mollare la presa su Chrysler. Non ho alcun dubbio. Non possiamo prendere un impegno se non intravediamo la luce alla fine del tunnel». Ma è proprio in questa bordata, sparata non a caso ieri mattina dalle colonne del canadese Globe and Mail, che tutto sommato si nasconde una delle chiavi delle pesanti schermaglie negoziali. Non è Torino che ha da perdere se l’accordo saltasse: è Chrysler che fallirebbe, e sarebbero i suoi dipendenti a «pagare di più» il conto della bancarotta. « per loro che mi preoccupo», non per Fiat: «Se non va da una parte va da un’altra, qualcosa troviamo. Ci sono parecchi ’piani B’». E sarà una coincidenza, però a poche ore dall’intervista i sindacati canadesi (i più «rigidi » secondo Marchionne) annunciavano che sì, accettano l’invito a tornare al tavolo delle trattative. Si riprenderà lunedì. Non che la strada sia tranquillamente in discesa. Il sindacato «non è» l’ostacolo principale: manca soprattutto «l’intesa con le banche che hanno finanziato Chrysler». E infatti anche lì si negozia a oltranza. Negli Usa come in Canada (dove il gruppo ha tre stabilimenti) sono però in molti a vedere una discreta moral suasion da parte dei governi, che leggono nelle nozze con Fiat l’unica concreta chance di «rifondazione» della più piccola delle ex big three.
La prima garanzia Washington l’ha pretesa con il piano industriale. La seconda, è l’impegno diretto di chi con quel piano ha convinto la Casa Bianca.
Era scontato per chiunque conosca Marchionne che, in caso di accordo in porto, il numero uno del Lingotto sarebbe stato il vero uomo forte. Ed è vero che lui, all’inizio, aveva rassicurato così quanti sui mercati temevano un suo assorbimento totale su Detroit: «Darò il mio contributo dal consiglio». Oggi – su richiesta dell’amministrazione Usa – dà invece la disponibilità all’incarico anche ufficiale come chief executive officer.
«Di fondo è possibile, ma i titoli a me importano fino a un certo punto. Mi importa fare tutto quello che è necessario per risanare l’azienda». A questo Marchionne si dice «disponibile: a fare tutto il necessario ». E quindi sì, «è possibile che io debba dividere il mio tempo tra gestione Fiat e gestione Chrysler». d’altra parte quanto, nella sostanza, avrebbe fatto comunque. Ed è naturale, visto che si va verso un’integrazione. Poi certo: il ruolo di Ceo comporta obblighi pure formali che rendono più gravoso il part time «atlantico». Però la scommessa è di quelle epocali. Lui la vuole vincere ed è ovviamente pronto a partire: alla fine, sebbene dia ancora «al 50% le possibilità di accordo», quel che vede è che «non c’è una sola ragione per cui Fiat non possa chiudere entro il 30 aprile».