Domenico Quirico, La stampa 17/4/2009, 17 aprile 2009
DUCASSE, MANGIO DUNQUE PENSO
In un’epoca di grigiore seriale e di trascurata mediocrità dei pasti quotidiani a cui fanno da contrappeso sconsiderate evasioni in «tradizioni» in parte inesistenti, o in un folclore largamente immaginario, Alain Ducasse, il più celebre chef francese, sembra ormai l’incarnazione, assai vitale, di una cucina «umanistica», lontana dall’esibizionismo dei nuovi Trimalcioni del terzo millennio. Uno stile, forse di più: una cultura.
Non c’è nulla di più effimero che la cucina.
«Claude Lévi-Strauss aveva magnificamente riassunto questa dimensione culturale: ”perché uno si nutra è necessario non solo che sia capace di mangiare, deve anche essere capace di pensare”. Questo fenomeno è universale, riguarda tutte le culture. Se pensate come gli inglesi che il coniglio non fa parte delle cose commestibili, ne proverete una autentica repulsione. Ma ci sono nella cucina altri aspetti, che hanno influenza sul nostro mestiere di cuochi e che mi appassionano particolarmente. Il modo di nutrirsi, gli stili della tavola, la successione dei piatti, tutto ciò è il riassunto di un’epoca. Soprattutto attraverso la cucina, scopriamo molte cose sui produttori, contadini, allevatori, pescatori eccetera. E l’uso della natura per i bisogni umani è al centro della cultura».
Ci racconti come nasce un nuovo piatto.
«Io cucino costantemente nella mia testa. Lo dico senza millanteria perché tutti i cuochi sperimentati potrebbero dirlo: siamo come musicisti che sentono l’orchestra appena leggono la partitura: perciò io posso immaginare perfettamente il risultato finale preparando la ricetta su un pezzo di carta. Poi la assaggio. Comincia allora un lungo lavoro di messa a punto con i miei cuochi per regolare in modo esatto i dettagli della cottura, del condimento, degli ingredienti. Non è raro che questo lavoro duri mesi, durante i quali il piatto è rifatto una dozzina di volte per arrivare esattamente a ciò che voglio».
Lei insiste molto sul rapporto tra la sua cucina, l’agricoltura del territorio e le tradizioni. C’è davvero una ecologia dettata dalla cucina?
«La buona cucina è ispirata dai buoni prodotti. Non c’è buona cucina senza prodotti e quindi senza produttore, senza gli uomini e le donne che riflettono su cosa producono e sul modo di farlo. Un esempio che mi è caro. il menù Giardini di Provenza che propongo dal 1987 al Louis XV a Monaco. letteralmente un inno alla gloria dei legumi della terra provenzale. Quando si lavora con prodotti così eccezionali, il cuoco deve restare modesto. Deve rispettare questi prodotti e metterli sulla tavola senza sovvertirne il gusto. In questo senso il cuoco deve moltissimo all’ortolano. Ma la simbiosi funziona nei due sensi: in cambio il cuoco dà all’ortolano una ragione di continuare la sua ricerca di un prodotto buono. Oggi l’agricoltura responsabile non è una possibilità: è un dovere. E quello che dico per gli ortolani vale per gli allevatori o la pesca. Esempio: il tonno rosso del Mediterraneo, specie in pericolo, è stato da tempo tolto dai nostri menù. stato sostituito da un tonno ”albacore” che arriva dall’Oceano Indiano e dal Pacifico dove le riserve sono a livelli giusti. In più abbiamo indicato sul menù la varietà e la provenienza del pesce. Il cuoco deve assumersi le sue responsabilità ambientali».
La società appone la sua impronta sulla cucina ?
«La cucina è sempre la cucina di un’epoca. vero per la grande cucina classica: anche in occasioni molto formali, non si usano più i grandi pranzi dell’800 con mezza dozzina di piatti. Ma è vero allo stesso modo per la cucina del territorio. Organizzo da due anni un’operazione che ha molto successo: la Francia (ri)cucinata. Chiedo a un centinaio di cuochi di rivisitare una ricetta della loro terra e di proporla a pranzo a 28 euro. Il risultato è stato fantastico. Un esempio: Boris Campanela, un savoiardo, ha reinventato la potée, un vecchio piatto contadino della domenica un po’ grasso e pesante. L’ha reso leggero e moderno prendendo delle idee alla cucina asiatica. Tutto ciò è incoraggiante, mostra che la tradizione culinaria è viva, che si evolve con i tempi».
Non c’è uno scarto sempre più profondo tra ciò che la gente mangia ogni giorno e il mondo della grande cucina?
«La cucina di apparato è sempre stata diversa da quella quotidiana. Quando nel 1671 François Vatel organizzò per il principe di Condé l’accoglienza di Luigi XIV al castello di Chantilly, garantisco che non c’era in quei banchetti nulla che avesse a che fare con la cucina popolare. Il pranzo servito in un tre stelle di oggi, antipasto piatto e dessert, è molto più normale, molto meno stravagante. Dunque la differenza si è piuttosto ridotta. Lo scarto è nella qualità dei prodotti, il carattere sofisticato della preparazione, la bellezza del contorno, la qualità del servizio».
In tempi di crisi la cucina non le sembra un lusso superfluo?
«Il lusso è sempre superfluo. Per questo è necessario! Il MoMa è stato inaugurato a New York nel novembre del 1929, poco dopo il Giovedì nero. Ci si chiede oggi se fosse un buon momento? Il lusso è un’industria in tutto e per tutto. Ha un ruolo economico da svolgere, è un fattore di innovazione e soprattutto apporta un contributo maggiore alla conservazione dell’abilità artigianale».
Che pensa di McDonald’s?
«Non lavoriamo proprio nello stesso settore. Dico due cose. Primo, non bisogna essere ciechi, il successo della ristorazione rapida è una realtà della nostra epoca, poi questa azienda dispiega molti sforzi, mi pare, per offrire un cibo più conforme ai precetti dietetici di base. Non mi interessa essere a favore o contro. Semmai, come cuoco, mi interessa esplorare vie nuove per creare un cibo quotidiano di qualità. Le mie équipe da anni si occupano di consigliare la ristorazione collettiva. In questo quadro aiutiamo gli operatori a preparare pasti buoni, gustosi da mangiare, per tre euro. Ne sono fiero».
Da grande cuoco, lei è diventato manager dell’industria del lusso. Gira il mondo, apre nuovi ristoranti e alberghi. Non ha un po’ di nostalgia, le due attività sono compatibili?
«Sono e resto un cuoco. L’unica differenza è che cucino nella mia testa. Sono circondato da collaboratori che si occupano delle finanze, della conduzione e del marketing. Le mie giornate sono interamente consacrate al mestiere di cuoco. Non solo non ho alcuna nostalgia, ma ho la possibilità di passare il mio tempo a fare cose che amo: gustare dei prodotti, incontrare i produttori, riflettere sulle ricette, concepire dei ristoranti. Fare ciò che amo è una grande felicità ed è una felicità che cerco di far condividere ai miei clienti».