Daniele Archibugi e Marina Chiarugi, il Manifesto 16/4/2009, 16 aprile 2009
IL DIFFICILE PROCESSO DEI PREDONI DEL MARE
Gli interventi militari delle marine militari americana e francese mostrano che qualcosa sta cambiano nel Golfo di Aden. Finora, i sequestri sono stati risolti privatamente: gli armatori, cui spetta l’ultima parola, hanno preferito avviare trattative dirette con i pirati che quasi sempre si sono risolte con l’incasso del riscatto e la liberazione di nave e equipaggio. Immettere nella regione denaro proveniente dai riscatti ha avuto l’effetto di far crescere l’industria della pirateria e gli armatori stessi hanno a gran voce richiesto una presenza massiccia di navi militari. In base alle norme di diritto internazionale, ogni nave militare ha la facoltà di fermare e ispezionare i titoli di bordo delle imbarcazioni mercantili e, se lo ritiene opportuno, anche di arrestare i sospettati di pirateria.
Sin dal Seicento i pirati sono ritenuti hostes humani generi e la pirateria è uno dei pochi reati, anzi il primo reato, per cui è prevista la giurisdizione universale. In altre parole, ogni stato ha la facoltà di processare gli imputati di atti di pirateria. Ma sembra che molti stati si siano scordati di questa loro facoltà, forse perché le norme del diritto internazionale non siano state recepite in quello interno.
Proprio nel Golfo di Aden, la Marina danese ha prima arrestato e poi accompagnato sulla costa un gruppo di pirati perché non sapeva come regolarsi. stata meno cortese la marina indiana, che ha fatto fuoco contro un’imbarcazione sospettata di essere stata sequestrata dai pirati, lasciando ai pesci il compito di stabilire chi tra le persone a bordo fosse un ostaggio e chi un pirata.
Il numero di pirati arrestati comincia ad essere più consistente, e non è chiaro quale sarà il loro destino. La Francia, che già deteneva 12 pirati catturati in due diversi blitz, ha aumentato il suo bottino con i tre pirati arrestati il 10 aprile a seguito dell’intervento per liberare lo yacht Tanit. E a seguito delle rocambolesche vicende del Capitano Phillips, anche gli Usa hanno il loro primo pirata prigioniero.
La Gran Bretagna, paese con la più antica tradizione di pirateria e anti-pirateria, ha pensato di risolvere il problema degli arrestati affidandoli alla giustizia keniota. La soluzione è senz’altro comoda, tanto che Unione europea e Stati uniti si stanno muovendo nella stessa direzione. Ma il Kenya ha un sistema carcerario periodicamente denunciato dalle associazioni dei diritti umani europee ed americane, ed è singolare che gli stessi paesi possano poi affidarsi ai servizi del suo sistema giudiziario e carcerario. Dopo essersi sbarazzati di Guantanamo e delle «Extraodinary Renditions», i paesi occidentali rischiano di riaprire il conto terzi reati penali, con l’aggravante che i pirati non sono responsabili di terrorismo, ma solo di crimini economici. C’è anche chi pensa di istituire un tribunale internazionale ad hoc per la pirateria, ma sarebbe il primo caso in cui anche la criminalità comune viene affrontata con gli strumenti del diritto penale internazionale. Forse la soluzione più equa è proprio processare e detenere i pirati nei paesi delle marine militari che li arrestano, anche per evitare che la scelta disponibile sia quella di affogarli o di lasciarli andare.