Luisa Muraro, Al mercato della felicità. La forza irrinunciabile del desiderio. Mondadori, Milano 2009, 17 aprile 2009
Leopardi, come noto, non aderiva alla fede dei suoi padri, ma ancor meno alla nuova religione della ragione e del progresso
Leopardi, come noto, non aderiva alla fede dei suoi padri, ma ancor meno alla nuova religione della ragione e del progresso. Seguendo i suoi pensieri, raccolti nel celebre Zibaldone, s’impara a uscire dalle geografie del credere/non credere, e a preferire la ricerca dell’alimento simbolico della nostra umanità. E’ così che Leopardi difende la religione, della quale parla come farebbe un medico dell’anima, medico fanciullo e poeta, immune dal sadismo della ragione. Ne loda l’apertura d’infinito che ci sottrae allo schiacciamento della realtà data e ci rende capaci di sentire, agire e pensare in grande, oltrepassando la logica del calcolo razionale. Di essa loda ancora che ci dà idea di un essere che ci ama e ha cura di noi, senza di che la condizione umana sarebbe insopportabile, a meno di fabbricarci delle illusioni, di cui dobbiamo sperare che durino, anche quando sono meschine. Scrive: «Tolta la speranza della vita futura, l’immortalità dell’anima, l’esistenza della virtù della sapienza della verità della beltà personificata in Dio, la cura di questo essere intorno ai portamenti nostri ec. l’amor di lui ec. non ci sarà mai si può dire, azione eroica e generosa e sublime, e concetti e sentimenti alti, che non siano vere e prette illusioni e che non debbano scadere di prezzo quanto più cresce l’impero della ragione, come già vediamo e che sono illusioni quelle grandezze anche presenti nelle quali la religione non ha parte ... Similmente si può dire della dolcezza e amabilità di tante idee ed opinioni che senza la religione sono chimere, e colla religione sono verità». E altrove: «L’uomo non vive d’altro che di religione o d’illusione. Questa è proposizione esatta e incontrastabile: tolta la religione e le illusioni, ogni uomo, anzi ogni fanciullo alla prima facoltà di ragionare (giacché i fanciulli massimamente non vivono d’altro che d’illusioni) si ucciderebbe infallibilmente di propria mano», ma «le illusioni durano ancora, a dispetto della ragione e del sapere. E’ da sperare che durino anche in progresso». Ma ne dubita e conclude: «A riparlarci di qui a cent’anni». Ci ha dato appuntamento sui teatri della Prima guerra mondiale.