Andrea Scanzi, il Giornale 16/4/2009, 16 aprile 2009
IL TRIONFO DEL BRUTTO ANATROCCOLO
Se non fosse accaduto davvero, ci sarebbe stato da arrestare gli sceneggiatori per eccesso di melassa. Alla casalinga disperata col doppio mento in disavanzo e la voce da angelo non sarebbero arrivati neanche Bollywood e Ron Howard, coi loro happy end da Oscar e i pugili Cinderella Man.
Susan Boyle non è una pugile, per quanto i lineamenti lascerebbero supporlo, ma nessuno è più Cenerentola di lei. Le scarpette magiche non le ha, anzi - per non farsi mancare nulla - si veste pure malissimo, ma alla fine il principe azzurro lo ha trovato. Non era una fiaba, era «Britain’s Got Talent». Non era un uomo, era una voce: la sua.
«Britain’s Got Talent» è un programma televisivo inglese, a metà strada tra la Corrida e X Factor. Chi sale sul palco sconta spesso il martirio, e questo sembrava il destino di Miss Boyle, 48 anni portati che peggio non si potrebbe. Capelli grigio ingarbugliato, fattezze da zia fatalmente zitella e vestiario affidato a una sarta daltonica. I tre giurati, nel vederla, neanche hanno trattenuto le risa. Il Maro Maionchi di turno, tale Simon Cowell, ha alzato gli occhi al cielo quando la povera Susan ha raccontato di venire da un anonimo (pure quello) villaggio scozzese, aggiungendo poi - tra lo scherno pressoché unanime - di avere per mito «Elaine Page, vorrei lavorare in un musical».
Poco prima dell’esibizione, le telecamere hanno inquadrato un gruppo di ragazzine, tutte braccia e cipria rubate ai reality. Si davano di gomito, sghignazzando.
Quella donna doveva verosimilmente apparir loro come una sorta di modernariato preistorico: un fossile patetico.
Avevano lo sguardo della nipotina di Gran Torino che non vede l’ora che nonno Clint tiri le cuoia, così potrà ereditare l’auto. Solo che a volte il destino spariglia le carte. Si diverte a stupire. Anche i terzini, quando videro arrivare Garrincha, sorrisero. Era brutto, era zoppo. Poi però, quando cominciò a dribblare, i terzini smisero di ridere.
Il dribbling di Susan Boyle è stato incantevole. E i terzini - noi - devono ancora rialzarsi dallo stupore. La sua esibizione, su Youtube, l’hanno già vista 5 milioni di persone. Dietro quelle mortalissime spoglie si nascondeva un talento raro. Ha cantato «I Dreamed A Dream», dai Miserabili. Difficilissima, ma del resto le epifanie hanno bisogno di rischi estremi per palesarsi appieno. Glenn Gould si presentò scalando le Variazioni Goldberg, David Helfgott esordì con Rachmaninov, (e ancora ne porta i segni). Funziona così.
In piedi alla prima nota
«I dreamed a Dream», ho sognato un sogno. L’ha sognato bene, Susan. E l’ha cantato anche meglio. Sono bastate le prime note perché il pubblico - da sempre propenso al melodramma - scattasse in piedi, più per esigenza di miracolo che per standing ovation. «E’ stata la più grande sorpresa in tre anni di show», ha chiosato Piers Morgan, il giurato buono. Vero, ma lei neanche se n’era accorta: stava abbandonando il palco, ancora timorosa di essere fuori posto.
Il tam tam su Internet impazza, la favola della brutta casalinga nel musical piace a grandi e piccini. Demi Moore, usando Twitter per messaggiarsi con il marito (ecco un esempio di coppia post-moderna), ha detto di aver pianto ascoltandola. La Sony vuole metterla sotto contratto. I media inglesi la intervistano a getto continuo, scoprendo un comunissimo caleidoscopio di frustrazioni. «Sono nata con una disabilità, a scuola ero vittima di bullismo. Mi davano un mucchio di soprannomi, per i capelli e per il fisico». In tivù è andata per rispettare la promessa data alla madre: «Diceva che se ci fossi andata avrei vinto. Ma ho sempre pensato di non essere all’altezza. Solo dopo la sua morte mi sono fatta coraggio».
Mai un uomo
Susan ha sofferto di ansia, di depressione. Non ha mai avuto un uomo, «non mi hanno neanche mai baciato». Vive a Blackburn, il suo unico compagno ha dieci anni ed è un gatto di nome Pebbles. Grazie a lei sono venuti allo scoperto molti altri casi Boyle. Tutti personaggi in cerca d’autore, rivalsa e attenzione. Ogni tanto succede. Magari è una Luxuria, da far vincere per non sentirsi razzisti. Oppure una Jade, da accompagnare - telecamere in spalla - fino al funerale per sentirsi buoni. Ecco: Susan Boyle non è una «Diversamente Arisa». Non è una meteora mediatica. Non è la classe operaia che va in Paradiso. E’ uno scarto, un’epifania. Una speranza: che la qualità conti più dell’apparenza.
Che i baci, seppur per vie traverse, arrivino prima o poi a destinazione.