Giampaolo Pansa, Il riformista 10/4/2009, 10 aprile 2009
TERREMOTI ARTIFICIALI
Dove correvo in quella notte d’ottobre del 1963? Stavo rannicchiato dentro la 1500 Fiat della Stampa che andava all’impazzata e tremavo di paura. L’autista, il più bravo del giornale, quello che seguiva il Giro d’Italia, capiva che la strizza mi teneva sveglio e ringhiava: «Dormi, Pansa, che domattina avrai da faticare!». Ma come potevo dormire? Avevo appena compiuto i ventotto anni ed ero un redattore addetto al desk, diremmo oggi. Non un inviato speciale con tanti servizi alle spalle. Eppure correvo incontro al mio primo terremoto artificiale.
Non so dire se i terremoti possano essere previsti o no. Ma so per certo che hanno tutti un regista nascosto: gli errori umani e, spesso, il comportamento criminale di più persone. Siamo noi a provocare molte delle catastrofi che poi chiamiamo naturali. Ci sono terremoti del tutto artificiali, voluti da noi, decisi da noi. Uno di questi mi aspettava all’alba in un paese del Veneto che non avevo mai visto: Longarone, in provincia di Belluno.
Sino alla mezzanotte di mercoledì 9 ottobre, la prima pagina della Stampa era stata persino banale. John Kennedy aveva deciso di vendere ai sovietici una quantità di grano pari a 250 milioni di dollari. A Roma gli edili in sciopero si erano scontrati con la polizia in piazza Santi Apostoli. Monica Vitti tornava a girare un film con Michelangelo Antonioni…
All’improvviso era emerso l’inferno. «Cambiamo questa prima!» aveva urlato il redattore capo, Riccardo Giordano, di solito freddo perché aveva fatto la guerra nei sommergibili. Adesso il nostro titolo di spalla, a sei colonne, batteva come un tamburo funebre. Crollata una diga in Cadore. Una fiumana di fango ha travolto il comune di Longarone. Centinaia di morti.
Appena chiusa la prima pagina, mi avevano spedito a casa. Dovevo prendere gli scarponi, la giacca a vento, un sacco da montagna. E partire subito, per fare da secondo a un inviato vero, Francesco Rosso. Mi sentivo al di sotto del compito. Anche per questo tremavo e non riuscivo a dormire. Le parole delle prima pagina mi colpivano come frecce roventi. Tutte dirette su di me. Rosso, invece, ronfava, con il Borsalino sugli occhi. E con il distacco del grande inviato che ha già visto troppo e non s’impressiona più di niente.
All’alba le parole divennero figure pietrificate. Il ponte di Susegana carico di gente atterrita. Il Piave gonfio di un liquido biancastro, la bava di un mostro. Un paese: Faè, con le prime macerie. Il ponte sul torrente Maè, diretto al Piave. Attorno al ponte, cumuli di terra. Ma erano cadaveri. Gente morta e denudata dalla ferocia dell’acqua.
Anche la ferrovia era scomparsa. Binari divelti, traversine spazzate via. Ecco il paese di Pirago. Un campanile e altre rovine. Di qui in poi, niente automobile. Ma non c’era la statale 51 per Cortina? C’era fino a ieri sera, adesso esisteva soltanto una pista di pietre e di fango. Francesco Rosso ritornò a Belluno. E io andai avanti. Camminavo leggero, in compagnia della paura. Un taccuino nella tasca della giacca a vento. E due biro.
Nell’andare, incontrai la squadra del Giorno. Era partita da Milano, con ore di vantaggio su di noi, e stava già tornando da Longarone, sempre a piedi. Giorgio Bocca ingrugnato. Franco Nasi sgomento. Guido Nozzoli con la faccia scura e i pantaloni infilati in stivali da cow boy. Nozzoli, un romagnolo tarchiato che aveva fatto il partigiano nelle Garibaldi, fu l’unico a rivolgermi la parola. «Quanti anni hai?» mi chiese. «Ventotto». «Allora tu la guerra non l’hai fatta. Vai avanti e la vedrai».
La guerra non era il crollo della diga del Vajont. La diga la scorsi subito, come la si scorge ancora oggi, quarantasei anni dopo. Stava sempre al suo posto. Intatta al centro della gola. Uno scudo enorme, dalla potenza disumana. Un arco superbo, brillante nel sole. A cadere era stato il monte Toc, alle sue spalle. Crollando nell’invaso, aveva creato un’ondata colossale, precipitata su Longarone. Un affare di qualche minuto. Risultato: mille morti, forse duemila.
Ecco il primo terremoto che vidi. Tutto artificiale. Provocato dalla razza umana. O per essere precisi dalla Sade, la Società Adriatica di Elettricità. Il motivo era il solito: il profitto, la sete di guadagno. La Sade doveva cedere l’impianto all’Enel, nato da poco. Voleva molti soldi e doveva dimostrare che l’impianto era perfetto. Per questo, giorno dopo giorno, aveva riempito d’acqua l’invaso della diga. Un’operazione rischiosa perché il monte Toc rischiava di sfaldarsi. Molta gente era in allarme. Ma la Sade se ne sbatteva degli allarmi. Aveva deciso di andare avanti. Sino a commettere quella strage.
Anche all’Aquila il meccanismo deve essere stato lo stesso, per molte costruzioni nuove. L’ospedale, la Casa dello studente, altri edifici. Adesso la magistratura indagherà. Qui posso soltanto avanzare ipotesi. Progetti assurdi. Materiali inadatti. Nessun controllo. Voglia di guadagno illecito. Forse tangenti. Se è andata così, lo si scoprirà. E qualcuno la pagherà cara.
Al Vajont c’era una persona che aveva capito per tempo quanto poteva accadere. Una giornalista coraggiosa, la corrispondente da Belluno dell’Unità: Tina Merlin. Nell’ottobre 1963 aveva trentasette anni, una donna alta, snella, bionda, dalla bellezza semplice e schietta. In tanti articoli aveva spiegato che la Sade andava fermata. E soprattutto che bisognava bloccare l’impianto che si colmava d’acqua. L’avevano denunciata ed era finita in tribunale, accusata di allarmismo sconsiderato.
A Longarone, giustamente, non ci ritenevano giornalisti come lei. E chi aveva salvato la pelle ci tirava le pietre. Te le tiravano tutti, i bianchi, i rossi e i neri. Avevano piantato un’infinità di cartelli su quel deserto lunare che era stato il loro paese. Un cartello per ogni casa scomparsa sotto l’ondata. Gli scampati ci urlavano: «Non potete stare qui. In questo posto c’era la mia famiglia. Ve ne dovete andare. E andate all’inferno!».
L’astio dei superstiti verso i giornali si attenuò soltanto quando a Longarone arrivarono i big politici, calati da Roma. La rabbia s’indirizzò verso di loro. Il primo a farne le spese fu Fiorentino Sullo, quarantadue anni, democristiano e ministro dei Lavori pubblici. Lo ricordo grasso, sudato, il fazzoletto premuto sulla bocca con le mani femminee.
Quindi atterrò sul deserto di Longarone il presidente del Consiglio: Giovanni Leone, cinquantacinque anni, capo di un Governo balneare destinato a cadere prestissimo. Offrì agli scampati una promessa in cinque parole: «Gente del Vajont, avrete giustizia!». Gli scampati gli replicarono, inferociti: «Assassino!».
Per ultimo comparve il capo dello Stato: Antonio Segni, settantadue anni, esangue, diafano, il volto scarnito. Gli trottavano al fianco il ministro dell’Interno, Mariano Rumor, e quello della Difesa, Giulio Andreotti. Tutti figli della Balena Bianca.
Se il monte Toc fosse precipitato nel bacino della diga trent’anni dopo, forse li avrebbero linciati. Erano l’incarnazione di un potere impotente che non aveva fatto nulla per impedire la strage. Ma in quell’ottobre si limitarono a circondarli con un muro di gelo.
Poi i morti vennero alla luce. Strappati dal fango grazie al lavoro degli alpini di leva del Battaglione ”Pieve di Cadore”. Ma di molti scomparsi non si trovò più traccia. L’ondata li aveva annullati, dissolti. Ricordo la storia di un giovane tecnico della mia città che lavorava nel cementificio di Castellavazzo. Con la moglie e due figli abitava nel centro di Longarone. Di loro non si è mai saputo nulla.
Al processo del Vajont, tenutosi proprio al tribunale dell’Aquila, si disse che i morti e gli scomparsi erano quasi duemila: 1.899. Il giudizio si concluse il 16 dicembre 1969, quattro giorni dopo la strage di Piazza Fontana. Degli otto imputati principali, cinque furono assolti e tre ebbero pene lievi. Nel collegio di difesa della Sade chi c’era? L’avvocato professor Giovanni Leone. Il politico che a Longarone aveva garantito: «Gente del Vajont, avrete giustizia!».