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 2009  aprile 15 Mercoledì calendario

Il compagno di merende muore con i suoi segreti VINCENZO TESSANDORI PER LA STAMPA Mario Vanni fu l’inventore di una espressione divenuta di «cult»

Il compagno di merende muore con i suoi segreti VINCENZO TESSANDORI PER LA STAMPA Mario Vanni fu l’inventore di una espressione divenuta di «cult». Aveva travalicato l’aula di corte d’assise dove lui e altri tre sospetti di essere complici, sodali, fratelli di sangue del «mostro di Firenze», che aveva ucciso otto coppie sulle colline attorno a Firenze, era sotto processo. Quella frase: «Amici di merende». Significava il peggio del peggio, copriva segreti inconfessabili e, di certo, inconfessati. E’ rimasto il sospetto che ci fosse poco da confessare e, forse, quel dubbio resterà. Il «mostro» era il Pietro Pacciani, lo avevano anche condannato per quella mattanza cominciata nel 1969 e conclusa nel 1985. Vero che in appello le prove accolte dalla corte d’assise avevano scricchiolato e una verifica più meditata era svanita perché il «mostro» era morto in una notte di solitudine, in casa, nel suo antro, a Mercatale Val di Pesa, paesotto a pochi chilometri da Firenze, remoto come una galassia. Fu durante il processo al Pietro che Gian Carlo Lotti, Giovanni Faggi e Mario Vanni, i suoi compari d’osteria, dovettero deporre davanti ai giudici. Lasciarono una pessima impressione. La peggiore la regalò «Vanni il postino»: era il 26 maggio 1994. «’E s’eramo la domenica insieme, ”e s’andava pe’ prati, s’andava per merende». Non lo credettero, l’aspetto dei quell’omone sgraziato, la sua parlata rozza, il suo passato lo avevano già trasformato in un complice del mostro. Si disse che era una frequentatore abituale di prostitute di pessimo conio: era vero. Che teneva in tasca un vibratore: era vero. Che una mattina l’aggeggio gli fosse sfuggito e si era messo in movimento sulla corriera che doveva portarlo al lavoro: era vero. La cosa fu riferita e confermata ai giudici, che vi colsero l’ombra della perfidia assoluta. Vanni nascondeva altro. Era violento, senza rimorsi. Come Pacciani. Ma forse semplicemente perché questi valori, a loro, nessuno li aveva insegnati. Un litigio con la moglie si era concluso drammaticamente: lui l’aveva presa a calci nel ventre, lei, incinta, era ruzzolata dalle scale, la figlia avrebbe portato per sempre i segni di quella furia insensata. Poi su quegli amici si era abbattuto l’uragano. Davanti ai giudici popolari e a quelli togati balbettavano. Faggi se l’era cavata, gli altri erano affondati. «S’eramo compagni, s’andava per merende». Fu inteso come se quelle merende fossero sinonimo di omicidi, del male in assoluto. Nel gruppetto ci fu anche un «pentito». Lotti fece i suoi racconti, dio solo sa se veritieri. Poi è morto. Sugli otto duplici omicidi che avevano gettato non solo Firenze e dintorni nel terrore, tutti commessi con una pistola Beretta calibro 22, proiettili Winchester LR rimanevano più ombre che luci ma per arrivare a una condanna basta aver certezze su uno solo delitto e così anche se si riconobbe che dall’elenco qualcuno mancava e si era dovuto prender nota che il Pietro era morto, «ufficialmente innocente», tutto questo non significava molto. I colpevoli c’erano, avevano smascherati i «compagni di merende» e loro avrebbero pagato. Anche lui, Vanni, era finito dentro. Malato, tanto da far più volte tuonare il difensore, Antonino Filastò: «Lo stanno ammazzando!» E lui se n’è andato, a 81 anni, forse colpevole o forse innocente, senza sapere di esser stato l’inventore di quell’espressione divenuta una sorta di «cult».