Silvia Ronchey, La Stampa 15/4/2009, 15 aprile 2009
VESPASIANO FACCIA DA GOMORRA
Passi per Cesare, il dittatore, mito pericoloso, ma dal bel viso ossuto pieno di pensieri. Passi per Adriano, il blasé, altro ambiguo mito, guance grassocce sotto la barba alla greca, ma profilo elegante e bella villa vicino Tivoli. Non erano modelli rassicuranti, i divi cesari dell’antica Roma, oggi al centro di sempre nuove mostre – ci sarà un motivo, in quest’epoca di imperi morti o morenti e di piccoli cesari nascenti, veri o presunti.
Per definizione non esistono cesari affascinanti. Ma qualcosa di interessante, al tratto, ognuno di solito ce l’ha. Tutti, tranne quello al quale si intitola la più grande e più bella di questa new wave di mostre, visibili fino al prossimo 10 gennaio a Roma per il bimillenario di Vespasiano, l’imperatore soldato, il capostipite della breve dinastia dei Flavi.
Sorvoliamo sul fatto che il suo nome è legato per i più a quello delle pubbliche latrine che nell’Urbe presero il suo nome da quando istituì una tassa sul prelievo di urina, usata allora dai tintori. No, è proprio il suo viso – purtroppo veristicamente replicato nei ritratti marmorei – a emanare tutto fuorché fascino di qualsiasi tipo. Un viso quadrato e duro da boss di campagna, calvo, rugoso, col doppio mento, un corruccio ostinato e prosaico, niente di sublimabile, una comparsa di Gomorra.
E non è un problema di classe, non sono le basse origini laziali, è proprio la fisiognomica a far indovinare già le battute «sordide e scurrili» che descrive Svetonio, gli «inconfessabili guadagni», la litigiosità e le scorrettezze di cui i biografi, per quanto servili, riempiono le loro narrazioni su questo self-made-man che nel primo secolo dell’impero fece seguire una pace greve, fatta di speculazioni edilizie di cui godettero pochi e tasse insopportabili per molti, alle sue stesse sanguinarie guerre.
Se Cesare fu il genocida dei celti, se Adriano sarà l’autore del primo olocausto ebraico, Vespasiano fu il primo a portare, spietatamente, la guerra in Giudea, lasciando a suo figlio Tito la distruzione del Tempio di Gerusalemme, che ancora oggi il popolo ebraico sente come un lutto e un sacrilegio - forse la ferita primaria recata al «duro e recalcitrante oriente semitico», per dirla con Renan. Fu con il saccheggio della città dei giudei che venne finanziata la nuova politica della città dei cesari. L’arco eretto da Tito lo racconta con arte formidabile e brutalità insopportabile.
Eppure, la scoraggiante faccia di Vespasiano è forse la più autentica e onesta immagine del militaresco, violento impero di Roma. E’ vero che aveva un accento intollerabile, e non aveva mai imparato bene la grammatica, figurarsi l’eloquenza. Ma, forse proprio perché gli ispirava soggezione, amò la cultura e la protesse, finanziando l’arte e soprattutto l’insegnamento, stipendiando lautamente i retori latini e greci, fondando di fatto la pubblica istruzione superiore e insediando sulla sua prima cattedra non un cortigiano ma un luminare come Quintiliano. E fu sotto il suo regno che Plinio il Vecchio scrisse quella summa della sapienza antica che è la Naturalis Historia.
E’ vero che la mancanza di carisma e prestigio sociale gli ispirò una bieca demagogia per ingraziarsi i cittadini, dopo gli snobismi giulio-claudi. Ma furono gli strati medio-bassi urbani e provinciali, il torbido reticolo di piccoli imprenditori, affaristi, cambiavalute, esattori, burocrati che i Flavi fecero attingere alla fonte del potere e affacciare alla scena della storia, a creare quel tessuto sociale e economico senza cui la successiva e più elegante dinastia degli Antonini non avrebbe potuto esercitare il suo fascino in quella che i libri di storia romana chiamano l’età argentea.
E’ vero che per lui «il denaro non puzzava mai», che le «grandi opere» dell’autocratico principato di Vespasiano e dei suoi figli peggiorarono a molti la vita. Ma l’immenso debito pubblico che si ritrovò dopo il governo di Nerone e il caos delle lotte civili fu bene o male riassorbito. Il Colosseo fu un monumento pubblico, un grande edificio per spettacoli plebei, deliberatamente costruito sul terreno della lussuosa e privata Domus Aurea dell’elitario Nerone. Per l’inaugurazione, che fece suo figlio, furono sacrificate cinquemila fiere, una carneficina che non porterà fortuna al luogo. L’anfiteatro Flavio continuerà nei secoli, dai gladiatori ai martiri cristiani fino a Daisy Miller, a essere un luogo di morte. Ma cosa sarebbe Roma senza il Colosseo? e senza il tempio della Pace, e piazza Navona? o il Campidoglio o il Campo Marzio o il Palatino come li vediamo ora, ridisegnati dai Flavi? La loro cupida edilizia diede a Roma la sua forma definitiva, quella della Forma Urbis, con cui sarebbe passata alla storia, e ancora oggi, anche quando non è visibile, ne definisce subliminalmente il paesaggio.
E’ vero che il senato fu esautorato, i vinti sfruttati o peggio, se ribelli, vittime di repressioni «infami e odiose», per citare Tacito. Ma è anche vero che quello sporco lavoro Vespasiano non lo fece così male, se uno dei migliori cervelli ebrei dell’antichità, il nobile asmoneo Giuseppe, comandante delle truppe ribelli e in seguito storico della guerra giudaica, ma anche della più utile opera esistente sulla storia e sulle tradizioni del suo popolo, fu un collaborazionista così rassicurato dal suo oppressore da assumerne il gentilizio e firmarsi Giuseppe Flavio.
Gli intellettuali, si sa, sono trasformisti. Ma quell’ebreo ebbe fiuto. Non finì suicidato come Seneca, che aveva educato Nerone. Vespasiano infatti era tollerante anche con chi lo contestava, e la meno greve delle sue battute fu: «Non ucciderò un cane che mi abbaia contro».