Carlo Bonini, la Repubblica 14/4/2009, 14 aprile 2009
VIAGGIO NELLE NUOVE CATACOMBE
La notte è tiepida, sedici gradi, e si cammina da un po´ in una guazza umida che lucida l´asfalto di una fanghiglia scivolosa e avvolge come un sudario il terminal ferroviario di Ostiense, lo scalo abbandonato di vetro, ferro e cemento nel quadrante occidentale della città. L´orologio segna l´una del mattino quando il poliziotto si pianta all´improvviso come un cane da riporto. Si chiama Carlo Casini, dirige la Polfer del Lazio e, una notte ogni tre, raccoglie uomini che si sono fatti topi. Fa cenno alla pattuglia a piedi di sparpagliarsi. «Lo sente anche lei?». No. Non c´è rumore che si distingua, tranne il latrato di un cane. «Voglio dire, lo sente il tanfo? Perché vuol dire che ci siamo». Nel buio pesto, chiusi tra la massicciata dei binari, una grata alta due metri e le pensiline esterne del terminal abbandonato, avvolti dal lezzo di piscio che sale da un muretto sbreccato trasformato in sversatoio, gli uomini ratto sono un cumulo cencioso che diresti inanimato.
Otto, dieci coperte di lana infeltrita che chiudono come mummie, dalla testa ai piedi, altrettanti esseri umani gettati in terra. Uno stretto all´altro, in un ordine geometrico che non lascia spazio tra i corpi. I fasci di luce delle torce tascabili nelle mani dei poliziotti schiacciano quelle ombre sul tappeto di cartoni che li isola dal terreno. Ne illuminano uno più grande degli altri, sottratto a un´edicola, dai colori rosso e blu accesi, che riesce a ospitare fino a tre esseri umani: "In regalo con Volare, l´atlante del volo". Ora quegli uomini alzano le mani, agitandole in un tremore che sembra irrefrenabile. Che non è freddo, ma paura. Farfugliano tra loro una lingua incomprensibile. dialetto pashtun. Sono afgani e sono tornati dove neppure quarantotto ore prima ventiquattro bambini della loro stessa etnia, accucciati tra tombini trasformati in ripostigli di stracci e cibo, sono diventati notizia che ha fatto il giro d´Europa.
« come svuotare il mare con un secchiello», dice il vicequestore Massimo Bruno. «Domani ce ne saranno altri. E dopodomani altri ancora. Non importa se sanno che la sera prima ne abbiamo portati via un pullman intero. Arrivano con il buio. Si sistemano intorno alla stazione e se ne vanno con la luce dell´alba. Tra le cinque e le sei». Quando lo scalo esce dalla sua sospensione notturna, fatta di grate e pesanti cancelli che rendono inaccessibili gli ingressi ai sottopassi e alle pensiline. In coincidenza con i primi treni a lunga percorrenza che fermano sui binari della stazione Ostiense. Con il giorno, qualcuno va a lavorare nelle pizzerie del centro. Altri nei cantieri. Altri ancora ciondolano tra le mense del comune e quelle delle associazioni di volontariato. La notte sono di nuovo qui. Tra gennaio e oggi, ne hanno sottratti ai loro buchi 109, documentano le statistiche dell´Ufficio stranieri. Tutti chiedono regolarmente asilo politico. Non tutti lo ottengono.
Bruno si rigira tra le mani quattro pezzi di carta unti e sgualciti con i bolli della Repubblica italiana e due passaporti dalle pagine spesse come cartone. «Afgani», conferma. Dopo aver abbandonato qualche anno fa Colle Oppio e la groviera di anfratti tra la Suburra e i Fori Imperiali, questo pezzo di città, tra la Piramide Cestia di porta San Paolo e i quartieri della Garbatella e Ostiense, è loro. E dei loro bambini, dei loro adolescenti. Centinaia. Come non se ne erano mai visti negli ultimi anni. Con un flusso di cui nessuno, ancora, ha davvero dato una spiegazione che non sia quella, ovvia ma forse incompleta, della fuga da una guerra ormai lunga otto anni. E la prova, in qualche modo, è in uno dei pezzi di carta che stringe tra le mani il vicequestore. l´unico documento di F., uno degli uomini emersi dal cumulo di coperte. un decreto di espulsione firmato dal prefetto di Forlì. «Perché se ti hanno espulso a Forlì sei venuto qui?», gli chiede Casini. Il ragazzo, neppure vent´anni, sorride. Ha una tuta da ginnastica troppo grande per il suo corpo gracile e troppo corta per le sue lunghe gambe. «Capisci quando parlo l´italiano?», insiste il poliziotto, appoggiandogli una mano sulla spalla per tranquillizzarlo. «Qui amici. Tanti amici. Qui casa», sorride ancora lui. «Quanto hai pagato per arrivare in Italia?». «Diecimila dollari». «Come sei arrivato?». «Pakistan, Turchia, Albania. Ancona... «.
La "casa" degli afgani pagata ai trafficanti di uomini diecimila dollari in contanti sono almeno due chilometri quadrati dove non c´è buco, riparo artificiale o naturale che non racconti del passaggio di un uomo. Bottiglie, pantaloni strappati, brandelli di coperte, feci, resti di cibo che diresti di gatto, se non fosse per la cura intelligente con cui sono nascosti. un´area completamente disabitata, che appare come una protesi incongrua tra il quartiere Ostiense e la via Cristoforo Colombo. Dal perimetro ampio, delimitato dalla massicciata della ferrovia e dall´immenso cantiere che, superato piazzale 12 Ottobre 1492, la fiancheggia. Qui, un giorno, ci sarà "un´altra città", promettono i piani di sviluppo urbanistico del Comune. Ci saranno appartamenti, parcheggi di scambio, gli uffici del "Campidoglio 2", della terza Università. Qui, stanotte, c´è un´immensa forra che ogni tanto echeggia di rumori di lamiera e voci di uomo. Le ruspe e le gru hanno scavato in profondità, aprendo un invaso per le fondamenta dei futuri edifici che precipita fino a una quindicina di metri sotto la superficie del suolo. Ed è sul ciglio di questo cratere che spesso li si vede sparire o riapparire, gli uomini ratto.
Hanno sigillato di fresco i tombini color ruggine che segnano il perimetro del Terminal, dove la Polfer vuole che gli afgani custodissero soltanto i loro stracci e alcuni testimoni, al contrario, dicono di aver visto affiorare anche braccia e teste di uomini. Ma il movimento terra del cantiere regala ogni giorno nuovo cunicoli, trincee. Allargando una geografia che Casini ha imparato a conoscere bene nel tempo. E di cui parla con pudore e misura. «Qui a Ostiense dormono gli afgani. Allo scalo Prenestino, i maghrebini. Nella pineta di Casalpalocco e alla stazione di Trastevere, i romeni». Ogni etnia, un territorio. Ogni etnia, un modo diverso di confondersi nella notte, di scavare la propria tana. Perché "sotto i ponti", come pure ancora si dice a Roma, ormai ci dormono solo i barboni con i loro carrelli da supermercato ricolmi di cibo e stracci. I maghrebini del Prenestino si impadroniscono da tempo dei vagoni in deposito sui binari morti dello scalo. Li trasformano in cucine e dormitori. In magazzini. E, in estate, quando è troppo caldo, allungano i loro teli accanto alla massicciata. I romeni della pineta di Casalpalocco vivono mimetizzandosi in bivacchi assediati dal lerciume. «Prima della Polfer - racconta Casini - ho diretto il commissariato di Ostia. E le prime volte che andavamo in pineta, i miei uomini davano di stomaco. Perché è difficile vedere qualsiasi uomo, quale che sia il colore della pelle o la sua nazionalità, vivere in quelle condizioni».
Sono quasi le due del mattino e arrivano delle grida dal lato del Terminal Ostiense opposto a quello dove è stato sorpreso il primo drappello di ombre. Una seconda pattuglia di poliziotti circonda una dozzina di uomini con la schiena appoggiata a un muro di mattoncini. Gli è stato chiesto di tenere le braccia lungo le gambe. Hanno mani e sguardi che raccontano la sofferenza. Indumenti puliti che testimoniano un passaggio recente in qualche indirizzo della solidarietà. Afgani, anche loro. Ma con loro anche due bangladeshi e un cinese. Se ne stanno immobili. Tutti tranne uno, che sorride e smania per parlare, alzando il braccio come a scuola, per chiedere il permesso. Ha 22 anni, un piumino a mezze maniche di marca, un morbido pile azzurro e blu. «Parli italiano?», lo apostrofano i poliziotti. «Sono italiano», dice lui. «Boom. E di dove?». «Quartiere Monte Mario». «La Monte Mario bene, o la Monte Mario male?». «La Monte Mario bene, bene, bene». «E che ci fai qui?». «Ho litigato con quello stronzo di mio padre e ho pensato che questo era il posto giusto per fargliela pagare». Il posto dei "tombini", degli uomini ratto. Uno degli afgani traduce in pashtun le parole del ragazzo agli altri. Ed è allora che prendono a fissarlo come se quello che hanno appena ascoltato fosse il peggiore degli affronti di questa notte. In due, in cima alla fila, hanno una smorfia di rabbia e si mettono a correre a perdifiato. Diretti verso i vicoli che danno su viale Ostiense, dritti verso il buio che annuncia il grande cratere del cantiere. I poliziotti li inseguono a piedi. Gridano loro. E gridano i due che scappano. Li ammanettano dopo cinquecento metri. Piegati in avanti, con i polsi dietro la schiena, i due tornano a sfilare davanti al resto del gruppo. E a Carlo Casini, che scuote la testa lentamente, in un gesto che non vuole comunicare collera, ma forse solo rassegnazione. «Perché siete scappati, eh? Perché diavolo vi siete messi a correre? Non ce n´era bisogno. Forza, tutti sul pullman, al fotosegnalamento». «Anche io?», chiede il ragazzo di Monte Mario. «Soprattutto tu».