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 2009  aprile 10 Venerdì calendario

AFGHANISTAN LA GUERRA SENZA FINE


I combattimenti di cani, se sono cani quei bestioni con zanne da orso, avvengono ogni venerdì in un anfiteatro naturale dietro il ministero dell´Agricoltura, lì dove finisce la città e parte verso il cielo la linea verticale di una montagna scabra. Gli allevatori si accordano sulla posta, gli spettatori scommettono. Poi è solo un azzannare, latrare, strappare, sbranare, tra imprecazioni e grida di esultanza, finché uno dei due contendenti si dichiara sconfitto con la fuga.
L´evento è drasticamente maschile, mai un burqa in giro, e anche i cani, solo maschi. Tra i proprietari degli animali figurano alcuni tra i più noti comandanti mujahiddin, capi delle milizie etniche che conquistarono Kabul nel 1991 e per due anni se ne contesero le spoglie sbranandola quartiere dopo quartiere, come un branco di cani intorno ad una carogna. Cacciati dai Taliban, tornati con gli americani, oggi non pochi di loro affondano i canini nelle casse pubbliche. Hanno occupato importanti amministrazioni, governano, trafficano, barattano, intascano, insomma garantiscono ai Taliban che mai gli afgani riusciranno a identificarsi nello Stato: dunque che mai la Nato vincerà la guerra. Ma se proseguiamo lungo questa strada per una ventina di chilometri, fino alla base militare 201, troveremo guerrieri afgani di tutt´altro tipo, vecchio e nuovo insieme. Per esempio il maggiore Aref e la sua paradossale relazione con l´Occidente.
Gioviale, prossimo ai 50, Aref è un ufficiale dell´esercito nazionale, quell´Afghan national army (più noto con il suo acronimo, Ana) che ora è l´elemento centrale alla nuova politica americana, nella parole di Holbrooke: «afganizzare il conflitto».
Se nei prossimi anni i 90mila soldati dell´Ana, 135mila nel 2011, raggiungessero un buon livello di autonomia, l´Alleanza atlantica potrebbe sperare di disincastrarsi dall´Afghanistan presto e come non riuscì ai russi: e cioè lasciandosi alle spalle un Paese grossomodo stabile e amico, oltre ad alcune basi aeree piazzate nel cuore dell´Asia centrale. Con questo obiettivo Obama ha affiancato all´Ana altri quattromila militari americani, per gran parte consiglieri militari e istruttori. Ma il risultato dipenderà soprattutto da ufficiali come Aref, e questo è bizzarro. Vent´anni fa in Occidente non avremmo battuto ciglio se i nostri amici mujahiddin gli avessero tagliato la testa, anche allora mora e baffuta, e l´avessero infilzata in cima ad un palo, così come spesso accadeva tra queste rocce di prima linea. Infatti Aref a quel tempo combatteva per il regime filo-sovietico di Najibullah, tenentino di un esercito creato e controllato dell´Armata rossa.
Oggi i militari con un passato comunista rappresentano il 60% degli ufficiali afgani; sono l´ossatura dell´esercito e del ministero della Difesa (gli alti funzionari, tre su quattro viceministri); e a dare retta al nostro maggiore, formano la riserva strategica di valori altrimenti sconosciuti all´apparato militare: «Professionalità e senso dello Stato». Di sicuro mitigano le rigidità islamiste dei loro commilitoni, gli ex nemici mujahiddin, l´altra parte dell´Ana. E anche per questo nel perimetro del ministero della Difesa, all´interno della più grande base militare di Kabul, ci si può imbattere in uno spettacolo oggi unico in Afghanistan: ragazze in jeans, con vistose bocche carminio e nere chiome al vento. Camminano di buon passo, sicure, indifferenti ai plotoni che le mitragliano di occhiate. Sembrano sbucare dalla Kabul di Najibullah, l´ultima ridotta del regime schiantato dai mujahiddin nel 1991.
Dopo trent´anni di guerra civile l´esercito è la prima e l´unica istituzione in cui gli afgani intravedano un´autorità affidabile e disinteressata, un destino comune, una vaga idea di patria. Nella percezione comune governo, magistratura, polizia, sono inefficienti e opachi. L´Ana ispira fiducia. In quest´esito c´è del miracoloso. I soldati afgani rischiano la pelle (con parsimonia, ma la rischiano) per stipendi che variano dai 60 dollari al mese della recluta ai 600 di un generale. Sono equipaggiati poveramente. Le pattuglie si muovono per lo più su fuoristrada non blindati, un bersaglio facile per mine e razzi. Oggi i due terzi sono armati con mitra americani, ma fino a ieri hanno combattutto i Taliban con le munizioni contate e i kalashnikov forniti dal Pentagono, ufficialmente ungheresi, in realtà cinesi e piuttosto imprecisi, quando non scandenti come i kalashnikov pachistani che si inceppano sistematicamente. Ricevono soccorso aereo dagli occidentali soltanto se subiscono attacchi massicci, e anche in quei casi, «talvolta» (così un pudico portavoce della Difesa). Insomma, avrebbero motivi per disertare, come accadeva con frequenza fino a due anni fa. Invece: «Ottimi combattenti, motivati, con una buona tensione etica», li giudica il generale Marco Bertolini, capo di stato maggiore della Forza multinazionale a guida Nato, l´Isaf. Ma al momento il loro vero punto di forza sembra essere soprattutto la debolezza del nemico.
Se alla Nato non va bene, ai Taliban va peggio. In apparenza sono all´offensiva; ma secondo la Nato la guerra è concentrata in una piccola parte del territorio afgano: l´80% degli eventi bellici avviene nel 10% dei distretti, dice il generale Bertolini. «Succede questo: noi andiamo a mettere il naso dove prima non ci spingevamo. E i Taliban reagiscono. La loro è un´aggressività reattiva. Non possono pensare di vincere». E in effetti non lo pensano, mi conferma un giornalista che ha contatti frequenti con i Taliban, Mujahid Kakar, caporedattore nella tv afgana Tolo. «Due anni fa controllavano 12 distretti, tutti nel sud. Da allora ne hanno persi 10. Sanno che la vittoria non è alla loro portata. Ma confidano che un giorno gli occidentali lasceranno l´Afghanistan, non essendo in grado di cogliere una vittoria decisiva». Grossomodo è quanto sento anche dall´ex ambasciatore dei Taliban in Pakistan, ed ex detenuto di Guantanamo (4 anni), mullah Zaeef. «Non possono vincere? Forse. Ma di sicuro non può vincere la Nato. E questa è la loro terra». La loro terra? In senso lato. Il 60% dei Taliban che catturiamo, dice Aref, viene dal Pakistan. I più sono pashtun, afgani o pachistani. Alcuni invece stranieri: arabi, centroasiatici. Tutti molto giovani, molto poveri, molto fanatici. Quando non sono del posto, operano in unità mobili di 10-11 miliziani. Va da sé che per coordinare questo traffico da e per il Pakistan, e la logistica che comporta, occorre una struttura poderosa, quale solo il servizio segreto pachistano, l´Isi, poteva mettere a disposizione.
Di recente l´Isi sembra aver voltato le spalle ai suoi protetti. Ma anche in questo caso deve esercitare una certa influenza sull´arcipelago guerrigliero, che ha modellato con il suo metodo: liquidando, o facendo liquidare, i comandanti che si ritagliavano un´eccessiva autonomia. Secondo Danish Karokhel, direttore di un´agenzia di stampa, si spiegano così le disgrazie della banda di mullah Dadullah, quella che rapì il giornalista di Repubblica Daniele Mastrogiacomo e due suoi collaboratori afgani, poi scannati. Acquisito un certo prestigio militare, Dadullah aveva preso ad atteggiarsi a leader. Che parlasse o no con Osama, come sosteneva, improvvisamente un missile americano l´ha trovato. Poi il fratello è stato espulso dal movimento Taliban, con decreto di mullah Omar inviato alle radio, e immediatamente arrestato in Pakistan. Orfani dei capi, di recente i resti della banda avrebbero cercato una sponsorizzazione russa, mi racconta Karokhel.
Anche le traversie di questi tagliagole confermano l´impressione che la guerra sia bloccata in uno stallo dinamico, cioè esposto ad una pericolosa deriva verso l´anarchia militare. I Taliban non riescono a innescare una sollevazione ma le loro unità mobili terrorizzano una larga fascia del Paese e i loro commandos suicidi hanno raggiunto straordinari livelli di efficacia. A parte la presidenza e alcune ambasciate, non v´è edificio a Kabul che non sia a rischio, come conferma anche l´ingresso del mio hotel, il Serena, già attaccato una volta dai Taliban. Per entrare con l´auto bisogna superare nell´ordine: primo passaggio a livello; sorveglianza armata; secondo passaggio a livello; altra sorveglianza; portone di ferro scorrevole, alto cinque metri; sorveglianza; terzo passaggio a livello; secondo portone di ferro, identico al precedente. Pare di infilarsi in una cassaforte.
A sua volta la Nato avanza sul terreno, e avanzerà di più grazie ai rinforzi decisi da Obama; ma non avanza nei cuori e nelle menti degli afgani, dove paga lo sconcerto prodotto dagli sbrigativi stili di combattimento americani e dalla corruzione delle amministrazioni pubbliche. Così forse la fotografia più nitida della guerra, del suo stato attuale, è nelle percentuali che mi offre il generale Richard Blanchette, portavoce dell´Isaf: «Il 5% della popolazione è dalla parte degli insorti, il 10-12% dalla parte nostra, il resto non si schiera». Secondo Blanchette, quei quattro quinti si defilano perché impauriti e minacciati dai Taliban. Ma è onesto aggiungere che oserebbero di più se le amministrazioni pubbliche non fossero occupate anche da inetti e da predoni. Alcuni segnali sembrano indicare che la maggioranza perplessa sarebbe disposta a mettersi in gioco. Secondo Blanchette sono in aumento gli afgani che segnalano alla Nato i movimenti dei Taliban. Ancor più significativo pare l´incremento delle registrazioni nelle liste elettorali («Ben al di là delle aspettative», secondo il generale Bertolini), se risultasse reale.
Molti afgani attendono le elezioni di agosto, amministrative e presidenziali, per decidere se sperare o no. Una consultazione corretta, e un governo decente, cambierebbero la percezione dei più. Sul medio termine la partita decisiva la giocherà l´esercito afgano, se saprà crescere in efficienza e ricomporre culture ed identità etniche dentro un´idea di patria. Come possano convivere armoniosamente ufficiali allevati nelle Accamedie militari sovietiche (Minsk, nel caso del maggiore Aref) e ufficiali provenienti dalle file dei mujahiddin, è un mistero che sfugge alla razionalità di noi occidentali. In teoria gli ufficiali di formazione sovietica dovrebbero essere atei, e gli ex mujahiddin fondamentalisti. Ma a quanto pare non è così. Aref sostiene di essere un musulmano praticante, come il suo vice, un capitano ex mujahiddin. Giura di pregare cinque volte al giorno fin dal tempo di Najibullah, vent´anni fa. «Di quel regime non avete capito molto, in Occidente». In realtà, quello era uno stato di polizia inefficiente e brutale. Ma il decennio successivo è stato molto peggio, e gli ultimi anni non sono stati migliori. Non fosse così, oggi gli occidentali non sarebbero costretti a sperare che un ex funzionario dei servizi segreti di Najibullah ripulisca la polizia. E non rimetterebbe la divisa agli Aref perché ci liberino dei guerriglieri afgani e di bin Laden, coloro che vent´anni fa stoltamente aiutammo perché ci liberassero degli Aref.