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 2009  aprile 14 Martedì calendario

UNA CASA SU DUE E’ INAGIBILE


In Campania la terra tremò il 23 novembre 1980, e tra i tanti palazzi crollati ce ne fu uno, in una via di Poggioreale a Napoli, che uccise 54 persone.

Cinque anni dopo arrivò la sentenza di primo grado: sei anni di carcere ai due principali imputati, il direttore dei lavori e il titolare dell’impresa di costruzione; avevano usato materiale di scarto e i pilastri non avevano le armature necessarie. Nel marzo 1987 l’appello dimezzò le pene, confermate dalla Cassazione a dicembre: tre anni di detenzione agli imputati e risarcimento dei danni a carico dell’Istituto case popolari.
Che però nel 1991 non era ancora arrivato. «Ci volle ancora tempo, ma alla fine riuscim­mo a ottenerlo», ricorda oggi l’ottuagenario av­vocato Giovanni Bisogni, che assisteva i fami­liari delle vittime.

 un caso di giustizia post-terremoto che al­la fine ha dato qualche esito, ma non è bastato un decennio per ottenere risultati minimi ri­spetto alle dimensioni del disastro. Sei mesi do­po il sisma, ad Avellino, fu arrestato l’ingegne­re capo del Genio civile, con l’accusa di omici­dio colposo plurimo, scarcerato dopo dieci giorni, processato e assolto cinque anni più tar­di. «Il fatto non sussiste», stabilì il tribunale; lì ci fu un’ingiusta cattura o un’ingiusta senten­za, a dimostrazione di come sia difficile gestire le inchieste che seguono terremoti o alluvioni, predestinate a conclusioni sempre contestate, che difficilmente raggiungono certezze e ancor meno evitano comportamenti «colposi» per il futuro.

A San Giuliano di Puglia il sisma è arrivato nell’ottobre 2002, sotto le macerie della scuola elementare rimasero 27 alunni e una maestra. Cinque anni dopo, nel 2007, sei imputati – 3 imprenditori, 2 tecnici e il sindaco, padre di una delle vittime – furono assolti; due mesi fa, 25 febbraio 2009, verdetto ribaltato: tutti con­dannati, con pene fino a 6 anni e 10 mesi. «Giu­stizia è fatta», hanno commentato i familiari dei bambini morti, nonostante l’altalena delle sentenze non sia finita: si attendono la Cassa­zione e lo stralcio d’indagine trasmessa a Roma per eventuali responsabilità ministeriali.

Claudio Di Ruzza, il sostituto procuratore ge­nerale di Campobasso che ha sostenuto l’accu­sa in appello, paragonando la vicenda di San Giuliano al terremoto dell’Aquila dice: «Siamo passati dalla scuola elementare alla casa degli studenti universitari, ma la sostanza è la stes­sa. Evidentemente nella costruzione degli edifi­ci pubblici, le amministrazioni perseguono in­teressi che si rivelano superiori al rischio di su­bire una condanna». Le inchieste e i processi del passato, insomma, non funzionano da de­terrente, per via dei tempi lunghi e dei risultati aleatori. «Noi siamo riusciti a dimostrare che la tragedia non fu causata solo dal terremoto, bensì anche da responsabilità umane – spie­ga Di Ruzza ”, ma sono indagini difficili, basa­te su perizie alle quali se ne contrappongono altre, e capita che chi le ha scritte si ritrovi in aula a sostenere cose diverse».

A San Giuliano l’accusa «ha vinto» – almeno per ora, e sempre che si possa dire così davanti a 27 bambini uccisi – ma in molti altri s’è dovuta arrendere. In Umbria le inchieste sul terremoto del ”97 aperte come «atti dovuti» non hanno accertato responsabilità. E davanti alla frana che a Sarno, in Campania, nel maggio ”98 provocò la morte di 137 persone, il pubblico ministero annunciò di volersi muovere con cautela «per evitare polveroni e la creazione di mostri da sbattere in prima pagina». Spedì due avvisi di garanzia l’anno successivo, al sindaco e a un assessore, per via di un mancato ordine di sgombero trasformato nell’accusa di omici­dio plurimo colposo. Il processo cominciò nel 2000, nel 2004 arrivò l’assoluzione in primo grado, confermata in appello nel 2008.

Nel frattempo sono cominciate le indagini sulle infiltrazioni della malavita nei lavori di ri­costruzione, a Sarno come nel resto della Cam­pania dopo il terremoto dell’80, in Basilicata e altrove, tangenti sugli appalti e ulteriori reati, spesso prescritti per il troppo tempo passato.

Per l’alluvione che nel camping calabrese di Soverato, nel settembre 2000, uccise 13 perso­ne, il 27 marzo scorso la Cassazione ha confer­mato tre condanne per il proprietario del cam­ping e altri due imputati. La pena più alta: 3 anni e mezzo di carcere, arrivati a quasi nove anni dalla tragedia. Pure qui c’è stata la solita battaglia di perizie e controperizie, che alla fi­ne restano discutibili e contestate; è probabile si ripeterà nell’inchiesta appena nata sul terre­moto abruzzese, nuovo capitolo di una storia dove le tradizionali lentezze e contraddizioni della giustizia italiana sembrano pesare più che in altre vicende. Proprio perché non aiuta­no ad evitare che nuovi disastri naturali diven­tino «colposi».