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 2009  aprile 14 Martedì calendario

VIAGGIO ALL’ORIGINE DELL’INDIA


I Brahmana sono trattati in prosa sul sacrificio (sui molti tipi del sacrificio). Testi al tempo stesso di esegesi liturgica e di metafisica, perché il sacrificio è tutto e parlarne implica dire ciò che è. Nel corpus vedico, massiccio abrupto e solitario di parole che appaiono senza essere accompagnate da alcuna testimonianza palpabile – oggetti, edifici, iscrizioni ”, i Brahmana occupano lo spazio centrale fra il Rigveda, che è una raccolta di milleventotto inni, in gran parte cifrati e allusivi a vicende mitiche di cui si presuppone la conoscenza, e i Sutra.

I Sutra sono prescrizioni aforistiche che si presentano in formulazioni asciut­te e stringate per favorire la memorizza­zione. I Brahmana, invece, sono testi dif­fusi e minuziosi, che si propongono di il­luminare ogni dettaglio del rito. La loro mira non è soltanto quella di mostrare ciò che deve accadere, ma di renderne ra­gione. Il significato diventa una striscia continua che corre in parallelo al rito, il quale tende a invadere la totalità del tem­po.

I Brahmana sono una grandiosa impre­sa di interpretazione, decisa a non lascia­re nulla nell’inerzia dell’insignificante. Ciò che si vedeva ogni giorno, nei gesti degli officianti e dei patroni dei sacrifici, veniva a essere sommerso dai significati e dalle storie, che ne giustificavano l’ori­gine e ora gli si sovrapponevano come una folta vegetazione epifitica. Nel conti­nente dei Veda, i Brahmana erano al tem­po stesso la «foresta», aranya, che signi­fica il luogo della dottrina segreta, e la guida per addentrarsi in quella foresta.

Prajapati è il personaggio dominante dei Brahmana. Instancabili, i testi a lui tornano: «Prajapati era solo...»; «I Deva e gli Asura, gli uni e gli altri generati da Prajapati...»; «Prajapati desiderò...». Le sue vicende sono le più drammatiche: suicida, ferito in un agguato, disarticola­to, agonizzante, minacciato di morte dal figlio primogenito. Eppure, questo non è bastato per gli indologi, anche per alcuni fra i più illuminati. Continuavano a ravvi­sare in lui un qualcosa di scialbo, artifi­cioso, quasi fosse un’astrazione escogita­ta da dotti ritualisti. Non era un dio co­me gli altri, con le sue avventure e vicissi­tudini. Oldenberg non gli concedeva al­tro che di essere «un vertice del sistema degli dèi, costruito dai sacerdoti». E con­cludeva: «Non è un dio vivente, che dà prova della sua potenza nella vita dell’ani­ma umana, nelle battaglie, nelle sofferen­ze dei popoli, non è un dio come più tar­di lo fu Shiva».

Paradossalmente il fatto di non essere tutto ciò che Oldenberg non gli concede di essere è il presupposto del più alto e inconfondibile pathos di Prajapati. Non conosciamo un altro creatore che, al pari di lui, si perda nelle vicende della creazio­ne, si sfibri nei rinnovati, spesso falliti, esasperanti tentativi di dare forma al mondo, di renderlo abitato da esseri pie­namente viventi. E quando finalmente ta­li esseri appariranno – gli dèi ”, comin­ceranno subito a battersi tra loro, in due schiere di fratelli nemici, i Deva e gli Asu­ra, e tale sarà la loro furia e concentrazio­ne nella lotta che presto dimenticheran­no e accantoneranno il Padre, figura or­mai inutile e sorpassata. In fondo gli uo­mini moderni non furono che gli ultimi a ignorare Prajapati. Primi erano stati gli dèi; poi vennero gli antichi, che lo dimen­ticarono: non esiste tempio indiano dove Prajapati sia raffigurato. Alla fine giunse­ro gli studiosi e caddero nell’equivoco più beffardo: credettero che Prajapati, dal quale tutto era sorto, fosse un’inven­zione tardiva, un nome che serviva per coprire una lacuna, ma rimaneva inconsi­stente.

Quando le creature hanno finito di ap­parire, la visione che si presenta è un im­mane disastro. Prajapati è sfinito, svuota­to. Solitario come all’inizio era solitario, perché le creature si sono subito rivolte via da lui. Il fine dell’opera – gioia e cibo – non è stato raggiunto. Questo è lo sfondo su cui ogni altro evento si delinea: una sce­na di desolazione e di ab­bandono, come al termine di uno sforzo vano. Tutta la storia, da allora, è il pro­cesso con cui Prajapati ten­ta di reintegrare le sue forze. Mai come nella storia di Prajapati è evidente quello che Sylvain Lévi ha chiamato il «realismo selvaggio» dei Brahmana. Mai un dio cre­atore è stato esposto come Prajapati al tormento, dall’interno e dall’esterno. Mai un essere divino è stato così dipendente dalla sua fisiologia. Dio solitario, arden­te, suicidale, sessuale, le sue creature lo trattano con eccessiva familiarità, come se non si fossero ancora del tutto distac­cate da lui. La creazione è una sequenza convulsa. Nessuno ha il tempo di fermar­si per onorare il Padre. E presto tutti lo fuggono. Ma come mai le creature abban­donarono Prajapati? Erano appena appar­se e il Progenitore giaceva sfibrato, «svuotato» ( riricanah, termine perfetta­mente corrispondente alla kénosis paoli­na: « exinanivit se »). Subito, le creature gli voltano le spalle. Votato alla solitudi­ne, prima e dopo avere creato, Prajapati non può mai gioire degli esseri che ha fat­to esistere. condannato a un perenne monologo, che a tratti può concentrarsi nell’«ardore», nel tapas.

Le creature non spiegano mai perché scompaiono. Per indifferenza? Perché non riescono a convivere con il Padre? Sovrapponendo le molte versioni di que­sta fase degli eventi, si può azzardare che le creature fuggano dal Padre perché si vergognano di lui, perché riconoscono in lui il primo colpevole. Non solo per­ché si è subito congiunto con la figlia Ushas – e questa era apparsa «una azio­ne cattiva agli occhi degli dèi». C’è chi di­ce che si fossero anche messi subito a di­sputare sul perché Prajapati avesse crea­to i ladri, i tafani, le zanzare e altro anco­ra. Ma tutto era un pretesto per alludere alla colpa maggiore, forse l’unica: la crea­zione stessa, quella ferita inferta nella pienezza, che l’aveva dispersa in un pulvi­scolo di esseri; quel passaggio irreversibi­le dal continuo al discontinuo, che ora avrebbe costretto tutti a vivere faticosa­mente tentando di ricomporre quel con­tinuo – cioè il corpo stesso del Padre. E non sarebbero mai riusciti a farlo una vol­ta per tutte. Ma, prima di giungere a quel punto – e quasi non volessero pensare a che cosa li aspettava ”, fuggirono. La­sciarono di nuovo il Padre nel deserto de­gli esseri, e l’osservarono da lontano mentre scopriva un modesto sacrificio per tentare – già da solo – di migliora­re la sua condizione. Eppure, quella ceri­monia gli giovò. Per il puro fatto di offri­re. Ma a chi? C’era solo il vuoto davanti a lui. Allora ricordò: Chi? – Ka – era il suo nome. Offriva se stesso a se stesso.

Ma non sarebbe mai bastato. Per ri­comporre Prajapati non sarebbe occorso nulla di meno dell’immane costruzione dell’altare del fuoco. Gli uomini pensava­no ai diecimilaottocento mattoni di cui avrebbero avuto bisogno per innalzarlo, per ricomporre il Padre.

I Brahmana sono di per sé testi ardui, così come sono ardue la Critica della ra­gione pura di Kant o l’Etica di Spinoza, forse le opere più affini ai Brahmana che possa offrire l’Occidente moderno. Ma un’ulteriore difficoltà è costituita dall’at­teggiamento ostile e sprezzante che mo­strarono verso questo genere di scritti al­cuni dei padri fondatori dell’indologia. Paradossalmente, si trattava in certi casi degli studiosi che più si adoperarono per­ché la letteratura dei Brahmana fosse co­nosciuta. Nel caso dello Shatapatha Brahmana innanzitutto Max Müller e Ju­lius Eggeling. Max Müller promosse la prima traduzione, integrale e commenta­ta, del testo. Affidata a Julius Eggeling, questa edizione, che rimane l’unica com­pleta fino a oggi e spicca tuttora come un’impresa grandiosa e preziosa, fu pub­blicata a Oxford fra il 1882 e il 1900.

Ma nel 1898, a distanza di pochi anni dai giudizi scoraggianti di Max Müller e Julius Eggeling sulla letteratura dei Brah­mana, veniva pubblicato a Parigi un libro di genio: La dottrina del sacrificio nei Brahmana di Sylvain Lévi. Per primo, Lévi aveva capito che i Brahmana posso­no essere intesi soltanto attraverso i Brah­mana – in modo non dissimile da come il suo maestro Abel Bergaigne aveva pro­vato a intendere il Rigveda soltanto attra­verso il Rigveda. Così rinunciò non sol­tanto a ogni pretesa di ricostruzione sto­rica, che in questo caso è illusoria e svian­te, come si è dimostrato con abbondanza di esempi sino a oggi; ma anche a riferi­menti ad altri testi del corpus vedico, in­nanzitutto al Rigveda. A parte la breve e densa Introduzione, il libro è tutto una sequenza di citazioni, mirabilmente scel­te e concatenate. Nonché finalmente tra­dotte in una lingua sobria e vigorosa, che non attenua la bruschezza del testo. Si può dire che qui per la prima volta, da­vanti ad attoniti occhi occidentali, affiori la macchina speculativa del sacrificio brahmanico – portentosa macchina di cui Sylvain Lévi era consapevole di mo­strare soltanto alcuni dei congegni fonda­mentali.

La qualità altissima del libro di Lévi non è certo dovuta alla teoria, che quasi non sussiste e, nei rari momenti in cui appare, non si discosta di molto da certe idee correnti dell’epoca. Non è certo dun­que per la sua visione storico-religiosa che, a distanza di un secolo, apriamo an­cora La dottrina del sacrificio nei Brah­mana con sempre rinnovato stupore e ammirazione, trovandovi ogni volta qual­cosa di nuovo. Ma dove risiede allora il genio del libro? Nella sua forma. Più pre­cisamente, nella sua capacità di acco­stare e montare cita­zioni. Di fatto, con temerario understa­tement, Mauss ave­va definito il libro «una raccolta ordi­nata dei testi dei Brahmana sul sacri­ficio ». Ed è un po’ come se si definis­se il Passagen-We­rk di Benjamin una raccolta ordinata di citazioni su Parigi.

Mentre non c’è dubbio su questo: il li­bro è una composizione di citazioni – e sostanzialmente null’altro. Occorre però osservare da vicino il procedimento di Lévi. Nella selva dei Brahmana Lévi proce­de con un invisibile machete e, senza mo­strare alcuna incertezza, isola i passi che costituiscono le giunture essenziali nella smisurata costruzione. Li accosta e li tra­duce, con un vigore che appare tanto più vibrante se si confrontano quei passi con le cartilaginose e arcaizzanti traduzioni di Eggeling. In certo modo, Lévi si muo­ve come l’adhvaryu, l’officiante che inces­santemente si adopera per eseguire tutti i gesti miranti a ricomporre il corpo di­sarticolato e dolorante di Prajapati, quale giaceva da secoli, ignorato dagli occhi oc­cidentali e anche trascurato dagli occhi dei nativi, che a lungo avevano ritenuto più urgente offrire la propria devozione ad altri dèi. A suo modo, La dottrina del sacrificio è un Prajapati ricomposto, co­me mille altre volte era stato ricomposto nel culto.