Roberto Calasso, Corriere della sera 14/4/2009, 14 aprile 2009
VIAGGIO ALL’ORIGINE DELL’INDIA
I Brahmana sono trattati in prosa sul sacrificio (sui molti tipi del sacrificio). Testi al tempo stesso di esegesi liturgica e di metafisica, perché il sacrificio è tutto e parlarne implica dire ciò che è. Nel corpus vedico, massiccio abrupto e solitario di parole che appaiono senza essere accompagnate da alcuna testimonianza palpabile – oggetti, edifici, iscrizioni ”, i Brahmana occupano lo spazio centrale fra il Rigveda, che è una raccolta di milleventotto inni, in gran parte cifrati e allusivi a vicende mitiche di cui si presuppone la conoscenza, e i Sutra.
I Sutra sono prescrizioni aforistiche che si presentano in formulazioni asciutte e stringate per favorire la memorizzazione. I Brahmana, invece, sono testi diffusi e minuziosi, che si propongono di illuminare ogni dettaglio del rito. La loro mira non è soltanto quella di mostrare ciò che deve accadere, ma di renderne ragione. Il significato diventa una striscia continua che corre in parallelo al rito, il quale tende a invadere la totalità del tempo.
I Brahmana sono una grandiosa impresa di interpretazione, decisa a non lasciare nulla nell’inerzia dell’insignificante. Ciò che si vedeva ogni giorno, nei gesti degli officianti e dei patroni dei sacrifici, veniva a essere sommerso dai significati e dalle storie, che ne giustificavano l’origine e ora gli si sovrapponevano come una folta vegetazione epifitica. Nel continente dei Veda, i Brahmana erano al tempo stesso la «foresta», aranya, che significa il luogo della dottrina segreta, e la guida per addentrarsi in quella foresta.
Prajapati è il personaggio dominante dei Brahmana. Instancabili, i testi a lui tornano: «Prajapati era solo...»; «I Deva e gli Asura, gli uni e gli altri generati da Prajapati...»; «Prajapati desiderò...». Le sue vicende sono le più drammatiche: suicida, ferito in un agguato, disarticolato, agonizzante, minacciato di morte dal figlio primogenito. Eppure, questo non è bastato per gli indologi, anche per alcuni fra i più illuminati. Continuavano a ravvisare in lui un qualcosa di scialbo, artificioso, quasi fosse un’astrazione escogitata da dotti ritualisti. Non era un dio come gli altri, con le sue avventure e vicissitudini. Oldenberg non gli concedeva altro che di essere «un vertice del sistema degli dèi, costruito dai sacerdoti». E concludeva: «Non è un dio vivente, che dà prova della sua potenza nella vita dell’anima umana, nelle battaglie, nelle sofferenze dei popoli, non è un dio come più tardi lo fu Shiva».
Paradossalmente il fatto di non essere tutto ciò che Oldenberg non gli concede di essere è il presupposto del più alto e inconfondibile pathos di Prajapati. Non conosciamo un altro creatore che, al pari di lui, si perda nelle vicende della creazione, si sfibri nei rinnovati, spesso falliti, esasperanti tentativi di dare forma al mondo, di renderlo abitato da esseri pienamente viventi. E quando finalmente tali esseri appariranno – gli dèi ”, cominceranno subito a battersi tra loro, in due schiere di fratelli nemici, i Deva e gli Asura, e tale sarà la loro furia e concentrazione nella lotta che presto dimenticheranno e accantoneranno il Padre, figura ormai inutile e sorpassata. In fondo gli uomini moderni non furono che gli ultimi a ignorare Prajapati. Primi erano stati gli dèi; poi vennero gli antichi, che lo dimenticarono: non esiste tempio indiano dove Prajapati sia raffigurato. Alla fine giunsero gli studiosi e caddero nell’equivoco più beffardo: credettero che Prajapati, dal quale tutto era sorto, fosse un’invenzione tardiva, un nome che serviva per coprire una lacuna, ma rimaneva inconsistente.
Quando le creature hanno finito di apparire, la visione che si presenta è un immane disastro. Prajapati è sfinito, svuotato. Solitario come all’inizio era solitario, perché le creature si sono subito rivolte via da lui. Il fine dell’opera – gioia e cibo – non è stato raggiunto. Questo è lo sfondo su cui ogni altro evento si delinea: una scena di desolazione e di abbandono, come al termine di uno sforzo vano. Tutta la storia, da allora, è il processo con cui Prajapati tenta di reintegrare le sue forze. Mai come nella storia di Prajapati è evidente quello che Sylvain Lévi ha chiamato il «realismo selvaggio» dei Brahmana. Mai un dio creatore è stato esposto come Prajapati al tormento, dall’interno e dall’esterno. Mai un essere divino è stato così dipendente dalla sua fisiologia. Dio solitario, ardente, suicidale, sessuale, le sue creature lo trattano con eccessiva familiarità, come se non si fossero ancora del tutto distaccate da lui. La creazione è una sequenza convulsa. Nessuno ha il tempo di fermarsi per onorare il Padre. E presto tutti lo fuggono. Ma come mai le creature abbandonarono Prajapati? Erano appena apparse e il Progenitore giaceva sfibrato, «svuotato» ( riricanah, termine perfettamente corrispondente alla kénosis paolina: « exinanivit se »). Subito, le creature gli voltano le spalle. Votato alla solitudine, prima e dopo avere creato, Prajapati non può mai gioire degli esseri che ha fatto esistere. condannato a un perenne monologo, che a tratti può concentrarsi nell’«ardore», nel tapas.
Le creature non spiegano mai perché scompaiono. Per indifferenza? Perché non riescono a convivere con il Padre? Sovrapponendo le molte versioni di questa fase degli eventi, si può azzardare che le creature fuggano dal Padre perché si vergognano di lui, perché riconoscono in lui il primo colpevole. Non solo perché si è subito congiunto con la figlia Ushas – e questa era apparsa «una azione cattiva agli occhi degli dèi». C’è chi dice che si fossero anche messi subito a disputare sul perché Prajapati avesse creato i ladri, i tafani, le zanzare e altro ancora. Ma tutto era un pretesto per alludere alla colpa maggiore, forse l’unica: la creazione stessa, quella ferita inferta nella pienezza, che l’aveva dispersa in un pulviscolo di esseri; quel passaggio irreversibile dal continuo al discontinuo, che ora avrebbe costretto tutti a vivere faticosamente tentando di ricomporre quel continuo – cioè il corpo stesso del Padre. E non sarebbero mai riusciti a farlo una volta per tutte. Ma, prima di giungere a quel punto – e quasi non volessero pensare a che cosa li aspettava ”, fuggirono. Lasciarono di nuovo il Padre nel deserto degli esseri, e l’osservarono da lontano mentre scopriva un modesto sacrificio per tentare – già da solo – di migliorare la sua condizione. Eppure, quella cerimonia gli giovò. Per il puro fatto di offrire. Ma a chi? C’era solo il vuoto davanti a lui. Allora ricordò: Chi? – Ka – era il suo nome. Offriva se stesso a se stesso.
Ma non sarebbe mai bastato. Per ricomporre Prajapati non sarebbe occorso nulla di meno dell’immane costruzione dell’altare del fuoco. Gli uomini pensavano ai diecimilaottocento mattoni di cui avrebbero avuto bisogno per innalzarlo, per ricomporre il Padre.
I Brahmana sono di per sé testi ardui, così come sono ardue la Critica della ragione pura di Kant o l’Etica di Spinoza, forse le opere più affini ai Brahmana che possa offrire l’Occidente moderno. Ma un’ulteriore difficoltà è costituita dall’atteggiamento ostile e sprezzante che mostrarono verso questo genere di scritti alcuni dei padri fondatori dell’indologia. Paradossalmente, si trattava in certi casi degli studiosi che più si adoperarono perché la letteratura dei Brahmana fosse conosciuta. Nel caso dello Shatapatha Brahmana innanzitutto Max Müller e Julius Eggeling. Max Müller promosse la prima traduzione, integrale e commentata, del testo. Affidata a Julius Eggeling, questa edizione, che rimane l’unica completa fino a oggi e spicca tuttora come un’impresa grandiosa e preziosa, fu pubblicata a Oxford fra il 1882 e il 1900.
Ma nel 1898, a distanza di pochi anni dai giudizi scoraggianti di Max Müller e Julius Eggeling sulla letteratura dei Brahmana, veniva pubblicato a Parigi un libro di genio: La dottrina del sacrificio nei Brahmana di Sylvain Lévi. Per primo, Lévi aveva capito che i Brahmana possono essere intesi soltanto attraverso i Brahmana – in modo non dissimile da come il suo maestro Abel Bergaigne aveva provato a intendere il Rigveda soltanto attraverso il Rigveda. Così rinunciò non soltanto a ogni pretesa di ricostruzione storica, che in questo caso è illusoria e sviante, come si è dimostrato con abbondanza di esempi sino a oggi; ma anche a riferimenti ad altri testi del corpus vedico, innanzitutto al Rigveda. A parte la breve e densa Introduzione, il libro è tutto una sequenza di citazioni, mirabilmente scelte e concatenate. Nonché finalmente tradotte in una lingua sobria e vigorosa, che non attenua la bruschezza del testo. Si può dire che qui per la prima volta, davanti ad attoniti occhi occidentali, affiori la macchina speculativa del sacrificio brahmanico – portentosa macchina di cui Sylvain Lévi era consapevole di mostrare soltanto alcuni dei congegni fondamentali.
La qualità altissima del libro di Lévi non è certo dovuta alla teoria, che quasi non sussiste e, nei rari momenti in cui appare, non si discosta di molto da certe idee correnti dell’epoca. Non è certo dunque per la sua visione storico-religiosa che, a distanza di un secolo, apriamo ancora La dottrina del sacrificio nei Brahmana con sempre rinnovato stupore e ammirazione, trovandovi ogni volta qualcosa di nuovo. Ma dove risiede allora il genio del libro? Nella sua forma. Più precisamente, nella sua capacità di accostare e montare citazioni. Di fatto, con temerario understatement, Mauss aveva definito il libro «una raccolta ordinata dei testi dei Brahmana sul sacrificio ». Ed è un po’ come se si definisse il Passagen-Werk di Benjamin una raccolta ordinata di citazioni su Parigi.
Mentre non c’è dubbio su questo: il libro è una composizione di citazioni – e sostanzialmente null’altro. Occorre però osservare da vicino il procedimento di Lévi. Nella selva dei Brahmana Lévi procede con un invisibile machete e, senza mostrare alcuna incertezza, isola i passi che costituiscono le giunture essenziali nella smisurata costruzione. Li accosta e li traduce, con un vigore che appare tanto più vibrante se si confrontano quei passi con le cartilaginose e arcaizzanti traduzioni di Eggeling. In certo modo, Lévi si muove come l’adhvaryu, l’officiante che incessantemente si adopera per eseguire tutti i gesti miranti a ricomporre il corpo disarticolato e dolorante di Prajapati, quale giaceva da secoli, ignorato dagli occhi occidentali e anche trascurato dagli occhi dei nativi, che a lungo avevano ritenuto più urgente offrire la propria devozione ad altri dèi. A suo modo, La dottrina del sacrificio è un Prajapati ricomposto, come mille altre volte era stato ricomposto nel culto.