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 2009  aprile 12 Domenica calendario

ELENA COMELLI PER DIARIO APRILE 2009

Mal Baltico Lettonia e Lituania Bancarotta est

Il grande Frank Zappa diceva che un paese non può essere considerato tale senza una birra locale e una compagnia aerea. In Lituania la prima non manca di certo: si chiama Svyturyus ed è una ricca lager bionda, pastosa, leggermente appannata. Dal 23 gennaio scorso, però, manca la seconda. La compagnia aerea flyLAL, infatti, è andata in bancarotta, abbattuta dalla crisi. Il primo risultato, a parte la questione di fondo toccata da Frank Zappa, è che arrivare a Vilnius è diventato più difficile che volare a Nairobi. Il modo più pratico ora è passare da Helsinki con Finnair o fare scalo a Praga con Czech Airlines. Sembra paradossale: Vilnius è stata eletta quest’anno Capitale europea della cultura, ma non ci si può andare (speriamo che non sia una prova generale di quello che accadrà all’Expo di Milano…).
Il caso lituano, come noto, non è isolato. Mentre tutti guardavano all’America, ai colossi del credito mondiale che tiravano le cuoia, la crisi menava colpi ben più duri in Europa, senza che nessuno se ne accorgesse. Ci sono voluti fallimenti clamorosi, moti di piazza e governi disarcionati da un giorno all’altro, per scatenare l’allarme sul fatto che stiamo perdendo l’Europa dell’Est.
Resta piuttosto curioso questo risveglio a scoppio ritardato sul profondo disagio di un’area geografica divenuta negli ultimi vent’anni una sorta di Eldorado, non solo per le grandi aziende e per importanti gruppi bancari, ma anche per imprese medie o piccole. Con miti come Timisoara, trasformata in distretto del Nordest in Romania e definita l’ottava provincia del Veneto. Unicredit ha il 32 per cento del suo giro d’affari all’Est, Intesa San Paolo il 12 a Fiat il 10. Ora che il sogno si è trasformato in un incubo e l’Europa orientale traballa, dando spazio a nuove rivendicazioni populistiche e xenofobe, tutti sembrano cadere dalle nuvole.
Il primo campanello d’allarme era arrivato dall’Ungheria, che ha evitato la bancarotta solo grazie a un prestito di 25 miliardi di dollari del Fondo monetario internazionale. Ma non meno tesa è la situazione in Bulgaria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ucraina e nelle repubbliche baltiche.
Il rischio è che prevalga la paura della concorrenza, spingendo ad alzare nuovi muri. Sta riemergengo infatti la retorica dello Stato nazione, con un’aggiunta di delusione e di revisionismo.
Lettonia, Estonia e Lituania sono i casi più problematici. Reduci dal dominio dell’Orso russo – che le ha invase nel 1940 soffocando nel sangue l’orgoglio nazionalista locale – sentono ancora sulla testa il peso della sua zampa, incastrate come sono fra due territori russi (a est la regione di San Pietroburgo e a ovest l’exclave di Kaliningrad, l’ex Konigsberg, patria di Kant) e ancora totalmente dipendenti dalle forniture dell’ex madrepatria, comprese quelle energetiche.
Nel 2004, dopo anni di resistenza da parte di Mosca, hanno aderito alla Nato e poi sono entrate nell’Unione europea. Ora, di fronte alla rampante aggressività di Vladimir Putin – che pochi mesi fa voleva schierare i missili Iskander a Kaliningrad – c’è poco da stupirsi della loro inquietudine.
La crisi economica, dunque, fa solo da detonatore a una bomba già innescata. La Lettonia è stata la prima a cadere sotto i colpi della stretta creditizia. Un’enorme massa di denaro presto a prestito, soprattutto dalle banche del Nord Europa, aveva finanziato il boom immobiliare, portando a un deficit corrente gigantesco, arrivato al 14 per cento del pil nel 2008. La difficoltà a correggere questi squilibri è aggravata dal fatto che le monete delle tre repubbliche (la corona estone, il lats lettone e il litas lituano) sono agganciate al corso dell’euro, il che preclude il ricorso alla svalutazione.
Alla scoppio della bolla immobiliare, il castello di carte è crollato. Il 15 dicembre 2008, il Nobel Paul Krugman ha scritto nella sua rubrica sul New York Times: ”La Lettonia è la nuova Argentina”. Per evitare il default, Riga ha chiesto aiuto al Fondo monetario internazionale, da cui ha ottenuto un prestito di 10 miliardi di dollari. Malgrado l’infusione di capitali freschi, il governo non ha potuto fare a meno di operare tagli profondi, incluso il 15 per cento dello stipendio ai dipendenti pubblici. I violenti moti di piazza lo hanno costretto a dimettersi – seconda vittima politica della crisi in Europa dopo l’Islanda – ma il nuovo governo è costituito da una coalizione di centrodestra molto simile a quella precedente e il nuovo premier, Valdis Dombrovskis, ha dovuto rimettere mano alle forbici, ribadendo che se il Fondo monetario non interverrà ancora, in giugno il suo paese avrà finito i soldi. In ogni caso, la bancarotta della Lettonia è considerata sostanzialmente inevitabile da molti analisti. In situazioni come questa, infatti, gli interventi di aiuto esterno di solito non riescono a impedire l’avvitamento della crisi. L’unica àncora di salvezza potrebbe essere lo sganciamento dall’euro e la svalutazione del lats. Ma i prestiti più recenti, data l’instabilità locale, sono stati contratti tutti in valuta straniera, per cui la svalutazione causerebbe una serie di fallimenti a catena, che aggraverebbero la recessione, com’è successo in Argentina nel 2002.
Il default della Lettonia potrebbe avere ripercussioni di vasta portata, economica e politica, su tutti i paesi baltini, in primis sulla Lituania, che presenta sintomi analoghi, con qualche mese di ritardo. All’inizio di marzo, il governatore della banca centrale lituana, Reinoldijus Sarkinas, ha dovuto intervenire per bloccare la fuga in massa dalla valuta lituana, innescata dalle voci di un’imminente svalutazione. Le voci hanno scatenato il panico tra gli abitanti di Vilnius, che si sono precipitati in banca a comprare euro, dollari, sterline, persino zloty polacchi; tutto quello su cui riuscivano a mettere le mani, insomma, pur di liberarsi dei litas.
La gente è sul chi vive, perché è chiaro a tutti che se la Lettonia svalutasse, dovrebbe svalutare anche la Lituania. I due paesi sono sulla stessa barca: l’indebitamento, sia pubblico che privato, è alle stelle e i due governi hanno soffiato nella bolla con una politica fiscale compiacente e una vigilanza a dir poco carente nei confronti delle banche. Ora la gente in piazza chiede di prendere provvedimenti duri contro le banche che negli anni passati si sono ingrassate prestando soldi senza alcun criterio, ma quelle stesse banche sono già sull’orlo del tracollo.
Parex, il più grande istituto di credito di Riga, è stato nazionalizzato per evitare che fallisse: un conto da 3 miliardi di dollari per il contribuente lettone. E tre delle quattro principali banche svedesi – Nordea, Swedbank e Seb – sono crollate in borsa e hanno dovuto ricorrere a una ricapitalizzazione per tappare i loro buchi baltici. Del resto, ora che il danno è fatto, si comincia a capire che nessuna istituzione, nazionale o internazionale, ha l’autorità di mettere il sale sulla coda a una banca che incassa i depositi in un paese e presta soldi in un altro, spesso guidata da manager che stanno in un terzo e con agli azionisti in un quarto.
Un’altra pressante richiesta dei dimostranti scesi in piazza è l’introduzione di un sistema fiscale progressivo: sia la Lettonia che la Lituania hanno optato anni fa per una flat tax, riducendo al limite le imposte (24 per cento) pur di diventare attraenti per gli investitori stranieri. Il risultato è che tutti, ma proprio tutti, pagano le tasse. I cittadini poveri, però, si vedono equiparati ai ricchi. E questo, con una recessione incombente, non fa per niente piacere a chi rischia di perdere il lavoro o di trovarsi in mezzo a una strada perché non riesce a pagare il mutuo. Per di più, i governi, in tempi di crisi di solito allentano la stretta fiscale per dare un po’ di fiato ai consumi e rimettere in moto la crescita. Ma Riga e Vilnius, al contrario, hanno dovuto avventurarsi sulla strada della stretta fiscale, visto il livello del debito pubblico, che non consente di indebitarsi ulteriormente. L’altra classica valvola di sfogo, la svalutazione, invece è invisa a tutti, governo e opposizione. Il governo non la vuole per non perdere punti sul rating e quindi aggravare il costo del servizio del debito. Chi protesta non la vuole per non mandare in bancarotta le famiglie che hanno contratto debiti in valute straniere. Tutto il peso della ristrutturazione grava così sulla produzione e sui salari.
Nelle stradine di Uzupis, il quartiere di Vilnius eletto dai suoi abitanti ”libera repubblica degli artisti”, si aggirano sempre più spesso gruppi di scalmanati che cercano di attaccar briga. Cresce la preoccupazione per l’incombente fine di un sogno. Quello di Uzupis era il ”diritto alla felicità” iscritto fra i primi articoli della sua goliardica Costituzione. Quello della Lituania, la riuscita transizione del paese verso la democrazia.