varie, 10 aprile 2009
La parola ”dollaro” deriva dal sassone ”daler”. Abbreviazione di ”Joachimdaler”, ossia ”moneta della Valle di San Joachim”, oggi Jàchimov, città della Repubblica Ceca
La parola ”dollaro” deriva dal sassone ”daler”. Abbreviazione di ”Joachimdaler”, ossia ”moneta della Valle di San Joachim”, oggi Jàchimov, città della Repubblica Ceca. Veniva da lì il metallo con cui si realizzavano i talleri tedeschi e i dollari, monete diffuse in Spagna alla fine del diciottesimo secolo. Al momento di decidere che moneta utilizzare per gli Stati Uniti d’America, il Congresso scelse il dollaro, su proposta di Alexander Hamilton, l’8 agosto del 1786. Il valore del dollaro era quello dei metalli di cui si componeva: valeva 24,06 grammi di argento o 1,6 grammi d’oro. I vari stati federati mantennero comunque in uso le loro monete fino al National Banking Act del 1863, che fissava il dollaro come unica valuta corrente degli Stati Uniti d’America. Dal 1900 il valore dollaro fu fissato a 1,67 grammi d’oro. Dal 1944 il dollaro è la valuta centrale del sistema monetario mondiale. il risultato degli accordi della conferenza di Bretton Woods: i leader politici usciti dalla Seconda Guerra mondiale decisero che tutte le monete avrebbero mantenuto un cambio stabile con il dollaro e un dollaro sarebbe stato valutato in un trentacinquesimo di oncia d’oro. Da quel momento il governo americano si trovò nella difficile condizione di dovere controllare il prezzo di mercato dell’oro, perché non si allontanasse da quella soglia, e gestire nello stesso tempo l’equilibrio del cambio con le altre valute. Dagli anni ”60 questa gestione si rese troppo complicata, dopo i primi cedimenti nel marzo del 1968 la Federal Reserve abbandonò gli sforzi per controllare il prezzo di mercato dell’oro. Si decise che convenzionalmente le banche centrali avrebbero continuato a scambiarsi oro a 35 dollari l’oncia, rimanendo isolate dal mercato. La soluzione resse per meno di 5 anni, i cambi iniziarono a farsi volatili. Dal 15 agosto 1971, su decisione del presidente Nixon, il dollaro si sganciava definitivamente dall’oro. Ma rimaneva la moneta di riferimento globale. Da quel momento gli Stati Uniti hanno usato il dollaro per regolare i loro conti. Ogni decennio a partire dagli anni ’70 ha visto amplissime fluttuazioni del dollaro, che sono essenzialmente servite agli Stati Uniti per compensare gli squilibri tra entrate e uscite. Il dollaro, moneta quasi esclusiva di riferimento per gli scambi internazionali e finora principale store of value , riserva di potere d’acquisto, è sceso una prima volta facendo saltare il sistema dei cambi fissi di Bretton Woods perché Washington cercava nello stesso tempo, e senza aumentare le tasse, di finanziare sia la Great Society che la guerra in Vietnam. L’America vendeva dollari, e il dollaro diventava, saltati i parametri dei cambi fissi, la sua principale materia prima d’esportazione. [9] Il primo risultato fu la grande inflazione americana degli anni ’70. Origine, più che conseguenza, dei fortissimi aumenti del greggio di quegli anni. All’inizio infatti il petrolio aumentò perché il dollaro, moneta di scambio, stava perdendo valore. Poi si aggiunsero altre dinamiche, economiche e politiche. Tra cui la politica lassista della Fed di Arthur Burns per aiutare nel ’72 la rielezione di Richard Nixon, che ci fu e fu trionfale. Vinta l’inflazione dalla Fed di Paul Volcker, risalito prepotentemente il dollaro, si arriva alla politica di spesa e indebitamento, in assenza di adeguata imposizione fiscale interna. Reagan lo fece più sul piano ideologico, una scommessa sull’America, che su quello pratico, poiché tagliò una volta le imposte ma le aumentò anche in tre tornate successive. [9] Paese debitore dall’indipendenza al 1915, poi creditore del mondo, gli Stati Uniti tornano debitori netti sull’estero alla fine del secondo mandato di Reagan. Da allora, e sono 20 anni, si sono contrapposte due scuole di pensiero. Una, che ha trovato uno dei suoi più chiari propagandisti in George Gilder, diceva (e dice) che tutti vogliono investire negli Stati Uniti perché è l’economia più aperta e rassicurante e perché nel mondo globalizzato non esistono più confini. Molti altri hanno obiettato che ai debiti c’è sempre un limite, anche per gli Stati Uniti, e che prima o poi sarebbe stato necessario rientrare, e fra questi l’economista e politologo Barry Eichengreen ha sviluppato argomentazioni fra le più chiare. [9] Negli ultimi anni il debito estero americano è esploso. Il deficit delle partite correnti che era stato in media di 91 miliardi l’anno nel 1990-1996 e di 176 nel 1997-1999 arriva a 539 nel 2003 a 833 nel 2006 e a 850 nel 2007. Gli stranieri, che detengono "solo" il 13% dei titoli americani quotati a Wall Street, hanno però il 43-44% del debito pubblico americano e Giappone e Cina, con il 63% di questa quota, fanno la parte del leone. Il Paese si è indebitato sempre più. Gli investimenti interni sono stati assicurati sempre meno dal risparmio interno pubblico (in aumento dal 2003) e privato (in calo a ormai azzerato), e sempre più da capitali dall’estero. [9] La Cina ha 2.000 miliardi di dollari nelle sue riserve in valuta estera. Secondo dati del Fmi, a fine 2008 i dollari Usa in riserve valutarie erano quasi 3mila miliardi, con l’euro che pesava per poco più di mille e tutte le altre insieme sui 300 miliardi. Le riserve cinesi valgono sempre meno a causa delle politiche inflative della Casa Bianca. La Cina non ha altre scelte e quei dollari dovrà tenerseli ancora a lungo, così come dovrà continuare ad acquistare i buoni del Tesoro americani come ha annunciato di volere fare: nessuno ucciderebbe il proprio principale debitore, rischiando poi di fare la stessa fine. [3] I cinesi sono preoccupati. Wen Jiabao, primo ministro cinese, ha chiesto agli Stati Uniti di intervenire per garantire il suo ”buon credito”, dicendosi preoccupato per le sorti dell’enorme mole di debito statunitense che Bejing ha accumulato negli anni. I cinesi si preoccupano perché i piani di spesa pubblica di Obama rischiano di fare impennare l’inflazione americana, e quindi svalutare il dollaro. Il 70% circa delle riserve in valuta estera cinesi sono dollari, ogni volta che la moneta americana perde valore, la Cina ci rimette più di ogni altra nazione. ”Abbiamo prestato un sacco di soldi agli Stati Uniti” ha avvertito Jiabao, ”e ad essere onesti sono un po’ preoccupato. Ho chiesto loro di mantenere il credito in buono stato, onorare le loro promesse e garantire la sicurezza degli investimenti cinesi” [5]. Pechino teme che l’America stia creando le premesse per un rilancio dell’inflazione e una svalutazione della propria moneta, in modo da "smaltire" i debiti accumulati verso l’estero, Cina in testa. [4] Tra l’altro il giorno prima della sua nomina, il segretario al Tesoro americano ha attaccato la Cina. Tim Geithner ha detto che i cinesi «manipolano il cambio» dello renminbi. Poi una penitente Hillary Clinton è andata a Pechino di fatto per chiedere scusa, dimenticandosi anche di fare quelle domande, così abituali fino a poco tempo fa, sulla pena di morte, sul rispetto dei diritti umani e della sovranità del Tibet. [3] Alla vigilia del G20 di Londra la Cina ha chiesto di trovare un’altra valuta per sostituire il dollaro. La banca centrale cinese ha proposto che la valuta americana venga in futuro sostituita nel suo ruolo di moneta di riserva. Al suo posto i dirigenti cinesi vedrebbero una moneta di riserva gestita dal Fondo monetario internazionale, quindi sganciata dalle vicissitudini di una singola economia nazionale, e intrinsecamente più stabile. Di fatto esiste già uno strumento che prefigura una simile valuta: i diritti speciali di prelievo gestiti dal Fmi, che tuttavia hanno un uso assai limitato e di certo non sono rivali del dollaro come moneta di riserva delle banche centrali. Basati su un paniere di quattro valute (dollaro, euro, yen giapponese e sterlina britannica), i diritti speciali di prelievo vengono usati soprattutto come unità di conto dal Fmi e alcune altre organizzazioni multilaterali [4]. Sono una sorta di moneta sintetica creata negli Anni ”60. I Dsp non sono mai diventati una vera riserva internazionale e sono stati di fatto confinati alle transazioni contabili tra i membri del Fmi. Usare i Dsp sarebbe anche un modo per finanziare in modo più equo il Fmi, insiste Pechino, che è sotto pressione degli altri Paesi perché aumenti la sua contribuzione. [2] Il governatore Zhou Xiauchan dice che è per evitare nuove crisi. In un saggio pubblicato sul sito in lingua inglese della stessa autorità monetaria, senza usare toni polemici verso il dollaro (che Pechino non intende indebolire nella fase attuale), il governatore scrive che l’attuale recessione mondiale "riflette vulnerabilità e rischi sistemici nel sistema monetario internazionale". A suo avviso uno dei modi per evitare in futuro il ripetersi di turbolenze finanziarie così gravi è la creazione di una moneta di riserva "slegata da nazioni individuali e capace di rimanere stabile nel lungo periodo, eliminando così i difetti inevitabili delle monete nazionali" [4]. E poi, per Zhou, il dominante peso negli affari internazionali del dollaro, ma anche dell’euro e dello yen, esagera i volumi dei flussi di monete e rende il sistema finanziario mondiale più volatile. La proposta di un paniere di monete al posto delle valute di proprietà delle singole nazioni, secondo la Cina, renderebbe più semplice per i governi gestire le rispettive economie, dando alle nazioni detentrici della valuta comune di riserva più libertà nel cambiare politica monetaria e tassi di cambio. [2] Vogliono la fine dell’egemonia del dollaro anche i russi e grandi economisti. Qualche settimana fa, era stata la Russia a chiedere che il Fmi emettesse una valuta globale, giustificandone la nascita con il bisogno di aggiornare "l’obsoleto ordine economico mondiale unipolare". E il 25 marzo, gli esperti del gruppo per la Riforma finanziaria internazionale dell’Onu hanno presentato alle Nazioni Unite una serie di misure innovative. La più rilevante è proprio quella di un basket di monete internazionali che sostituisca il dollaro. ” il momento giusto per avere una moneta di riserva condivisa", ha detto un membro del panel, Avinash Persaud, ex capo valutario alla JP Morgan. Tra gli accademici, anche il Nobel americano Joseph Stigliz, economista alla Columbia di New York, parlando a Shanghai aveva espresso la stessa convinzione: "Il sistema delle riserve basato sul dollaro è parte del problema", ha detto, perché troppo cash dal mondo viene fatto affluire negli Stati Uniti. "C’è bisogno di un sistema globale di riserve valutarie". [2] Ovviamente non è solo una questione di monete. Pechino vuole una riforma del sistema valutario mondiale. La richiesta del «grande timoniere» della Bank of China è finita invece sulla prima pagina del Financial Times perché molti analisti la leggono come un importante segnale ad Obama: i tempi sono cambiati e, quando Pechino parla, ora anche tu devi imparare ad ascoltare [3]. Un esempio di quanto i tempi siano cambiati davvero? Nel 1999, tra le prime sette banche del mondo quattro erano americane e due inglesi, ora ai primi posti ci sono solo banche cinesi. Agli occhi di Pechino, ha scritto l’Economist, l’Europa è un’insignificante macchiolina sulla carta geografica che si trastulla con il Dalai Lama e i diritti umani; il Giappone non conta più nulla e gli Stati Uniti sono nel panico, incapaci di individuare una via d’uscita. [3] Il cambio del dollaro appare, come ne 1971, la chiave di volta dell’intero sistema. Ma il contesto attuale è assai diverso da quello del 1971. Non foss’altro perché allora si chiudeva un’era di cambi fissi mentre oggi siamo, da decenni, in regime di cambi flessibili, anche se alcuni ancoraggi da parte di monete al dollaro o ad altre valute chiave come euro e yen, resistono da parecchi anni. Non si tratta quindi, oggi, di aspettarsi o meno una svalutazione o rivalutazione del dollaro, ma di stabilire se siamo alla vigilia di un cambio di regime. Se, ad esempio, ci apprestiamo a vedere la fine del ruolo del dollaro come principale moneta di riserva. [6] I cinesi però ci vanno cauti. Proprio perché la Repubblica Popolare è il più grosso investitore sovrano in titoli del debito pubblico Usa, i suoi dirigenti sono molto attenti a non compiere passi azzardati che possano accelerare il deprezzamento del dollaro. Hu Xiaolian, direttore dell’Ufficio Cambi che gestisce le riserve valutarie, ha dichiarato che "il dollaro resta la più importante moneta per il commercio internazionale e per i pagamenti; acquistare buoni del Tesoro americani è un elemento importante nella nostra politica di investimento delle riserve valutarie e continuerà ad esserlo". [4] E la Cina stessa, peraltro, non è valutariamente immacolata. Per anni ha tenuto il suo yuan sottovalutato per spingere le sue merci nel mondo, e i governi dei paesi partner commerciali, dagli Usa all’Europa, hanno accusato Pechino di "manipolazione". Ora le difficoltà dell’America nel mantenere un ruolo di leadership a causa del crac finanziario mondiale di cui è ritenuta la massima responsabile offrono ai Paesi dalle monete fino a ieri marginalizzate un’apertura per la conquista di un nuovo potere. Al centro di queste mire ci sono le organizzazioni internazionali, come il Fondo Monetario Internazionale o le Nazioni Unite, che i governi delle nazioni emergenti considerano strumenti meglio adattabili ai propri interessi, perché implicitamente, se non esplicitamente, erodono il ruolo della superpotenza americana. [2] Ma la "sostituzione" del dollaro come moneta di riserva è un progetto di lungo periodo. Sul quale però il governatore Zhou ha dato alcuni suggerimenti concreti. In primo luogo ha proposto che venga allargato il paniere di monete che compongono i diritti speciali di prelievo; in seguito gli Stati dovrebbero affidare in gestione una parte delle loro riserve valutarie al Fmi. un’operazione che "richiede straordinaria visione politica e coraggio", ha detto il governatore della banca centrale cinese, richiamandosi a un’analoga proposta fatta nel 1940 dall’economista inglese Keynes. [4] La soluzione potrebbe servire ma per ora non è praticabile. Una nuova moneta per gli scambi dell’economia globale sarebbe forse la soluzione migliore per cancellare il recente passato monetario, i mutui subprime e i titoli tossici. Rappresenterebbe però un’evidente riduzione del potere finanziario americano ed è molto dubbio che il neo-presidente degli Stati Uniti possa accettarla [1]. Zhou ha ragione quando afferma che parte della soluzione a lungo termine della crisi è un sistema di creazione di reserve che permetta alle economie emergenti di incorrere in disavanzi correnti in sicurezza. L’emissione di Dsp è un modo per raggiungere tale obiettivo senza sconvolgere le fondamenta del sistema globale. [13] Perché non c’è una chiara alternativa al dollaro. I leader della finanza globale dovrebbero essere soddisfatti che non ci sia scelta. Se l’euro fosse veramente pronto a diventare la prima valuta, allora vedremo il tasso di cambio con il dollaro balzare a quota 2. L’America non potrebbe trattare i propri clienti così male, come ha fatto ultimamente, se potessero cambiare fornitore. Negli ultimi sei anni, il valore del dollaro rispetto al paniere ponderato delle altre valute si è ridotto di oltre un quarto, in parallelo alla crescita a livelli record del deficit commerciale americano [7]. Ma nessuna altra valuta può proporsi come cardine del sistema. Lo yuan potrebbe forse diventarlo ma solo nella seconda metà del secolo: per ora i draconiani controlli di capitali cinesi e la mancata liberalizzazione finanziaria rendono improponibile un primato globale dello yuan. Ma anche l’euro ha i suoi problemi. Le banche europee restano troppo frammentate, con un mosaico di regole e autorità nazionali che cercano ognuna di sostenere i propri campioni. vero che i titoli di Stato europei sono tutti denominati in euro, ma tra quelli tedeschi e gli italiani resta una grande differenza, e il mercato degli Eurobond statali non ha lo spessore e la liquidità di quello dei Treasury Bill americani. Inoltre gli investitori internazionali possono comprare o vendere proprietà immobiliari molto più facilmente negli Stati Uniti che in gran parte dell’Europa. E l’assenza di una politica unitaria europea di bilancio crea notevoli incertezze: come la Bce, ad esempio, potrebbe reperire le risorse necessarie per un grande salvataggio bancario? [7] Servirebbe l’ingresso della la Gran Bretagna. Così l’euro diventerebbe una vera alternativa al dollaro. Nel 1971, quando con il crollo del dollaro finì il sistema postbellico dei cambi fissi, il segretario al Tesoro americano John Connally disse ai colleghi di Europa e Giappone la famosa frase: «Il dollaro è la nostra moneta ma è il vostro problema». E da allora il suo status globale è rimasto, nonostante molti episodi negativi. Gli standard monetari internazionali hanno una grande forza d’inerzia. La sterlina abdicò a favore del dollaro solo dopo 50 anni di declino industriale britannico e due guerre mondiali. Ma stavolta il passaggio del testimone potrebbe avvenire molto più rapidamente. [7] Comunque al vertice del G20 di Londra qualcosa è cambiato. Pechino e Tokyo hanno ottenuto quel che volevano: 250 miliardi dei 750 stanziati al G20 sono allocati per i Dsp. Il Wall Street Journal chiama i Dsp, senza troppi fronzoli, ”funny money”, una moneta tipo quella del Monopoli o di ”Bananalandia”, ”pezzi di carta stampati in cantina dai funzionari del Fondo monetario”. Il problema è che il Fondo fa crediti a paesi a rischio bancarotta usando una moneta artificiale con tassi di cambio artificiali che però poi fa capo a moneta vera, cioè quella che mettono i vari paesi – soprattutto, al momento, gli Stati Uniti. Ma se il credito diventa inesigibile, chi ci ha messo i soldi non può rivalersi direttamente sul paese aiutato, perché è il Fondo che decide tutto. D’altro canto, sono soldi che possono essere stanziati con facilità – e con un ritorno politico molto forte, visto che ”si aiutano i poveri” – perché sono spesso, come accade in America, fuori dal budget. Si corre così il rischio che, tra qualche mese, possa scoppiare una bolla dei diritti speciali di prelievo, assimilabile a quella – di cui molti esperti discutono – dei bond del Tesoro americano, alimentata dalla politica monetaria espansiva di Ben ”Helicopter” Bernanke. [12] E già si parla di tornare al ”gold standard”. Qualche mese fa Terry Smith, a capo dell’agenzia di brokeraggio del Tullet Prebon, ha chiesto di tornare a una forma di ”gold standard” per mettere a posto la crisi finanziaria: ”Due terzi degli asset mondiali sono valutati in una moneta emessa da uno Stato che sta prendendo decisioni che sembrano portare a un inevitabile destabilizzazione. I cinesi hanno concluso che questo non è accettabile”. Ma ci sono tendenze di ritorno al gold standard anche in altri settori: hedge fund che non comprano più beni quotati in dollari preferendo l’oro, fondi mediorientali che stanno scommettendo sul cibo e di nuovo sull’oro. Per decadi ci si è fidati delle valute sulla base della convizione che i governi siano credibili. Negli ultimi 18 mesi questa convinzione è stata testata fino al limite. Nei prossimi anni potrà crollare, a causa dell’ondata di misure straordinarie che genereranno inflazione selvaggia. [13] I finanzieri si stanno scambiando e-mail su un saggio intitolato ”Oro e libertà economica”. degli anni ”60, lo aveva scritto Alan Greenspan. ”Sotto il regime di gold standard, il credito che una nazione può sostenere è determinato dagli asset tangibili dell’economia. Ma senza questo regime non c’è nessun store value. La spesa in deficit è semplicemente uno schema per la confisca della ricchezza. L’oro, in questo contesto, protegge il diritto di proprietà”. [13] Tornare all’oro causerebbe uno choc. Ubs calcola che per reintrodurre il gold standard le riserve auree degli Usa sono così scarse che si dovrebbe quotare l’oro a 6.000 dollari l’oncia. Per implementare lo standard in Giappone, Cina e Stati Uniti il prezzo supererebbe i 9.000 dollari. Oggi un’oncia è quotata a 880 dollari. [13] [1] Mario Deaglio, La Stampa, 2/4/2009 [2] Glauco Maggi, La Stampa, 25/3/2009 [3] Vittorio Sabadin, La Stampa, 25/3/2009 [4] Federico Rampini, www.repubblica.it, 23/3/2009 [5] Financial Times, 14-14 marzo 2009 [6] Marcello De Cecco, Affari & Finanza, 9/02/2009 [7] Kenneth Rogoff, Il Sole-24 Ore 3/4/2008, pagina 1 [8] Alessandra Farkas, Corriere della Sera, 9 febbraio 2008 [9] Mario Margiocco, Il Sole 24 Ore, 21/9/2007 [10] Marcello De Cecco, la Repubblica, 28/10/2008 [11] Geoff Dyer, Financial Times, 1/04/2009 [12] Il Foglio.it, 2/04/2009 [13] Martin Wolf, Il sole 24 ore, 10/04/2009 [14] Gillian Tett, Financial Times, 9/04/2009