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 2009  aprile 09 Giovedì calendario

ASSISI IL PUZZLE DELL’UTOPIA IN 3000 PEZZI


Vennero giù in due momenti diversi le vele della Basilica superiore di San Francesco d’Assisi. Due scosse violente di quel maledetto terremoto che sconvolse l’Umbria, dodici anni fa. E ben centottanta metri quadri della volta della Basilica crollarono, riducendo in briciole capola­vori come la vela di San Matteo di Cimabue e la vela di San Girolamo, probabilmente dipinta da un giovane Giotto, così come da lui vennero di­pinti gli otto dei sedici santi affrescati sull’arco­ne. Oggi quei capolavori sono tornati al loro po­sto. Già, ma in che modo?

Lavorarono in tanti sulle macerie di quella Basi­lica ferita nel cuore. «Strutturisti e architetti, re­stauratori, storici dell’arte, fotografia» dice oggi Maria Andaloro, a Viterbo preside della facoltà di Conservazione dei Beni culturali, all’epoca a capo di un gran gruppo di lavoro per il recupero della Basilica. Poi spiega: «E’ fondamentale il lavoro di tanti esperti coordinati per questo tipo di rico­struzione. Noi ci occupammo della catalogazio­ne, la documentazione, la ricomposizione».

Ovvero, primo passo: tirar fuori dalle macerie i frammenti degli affreschi, prima di tutto. Un lavo­ro titanico. E subito dopo mettersi lì a dividere quei frammenti per colore, fondi architettonici, segni semantici (un pezzetto di occhio, di orec­chio, di mantello o di dito): ognuno nella sua ap­posita cassettiera. Come se si dovesse ricostruire un gigantesco puzzle.

«Quando vedemmo le macerie accumulate da­vanti alla Basilica lì per lì ci sembrò impossibile che avremmo potuto fare alcunché», dice Maria Andaloro, aggiungendo che proprio per questo il loro lavoro iniziale venne battezzato «il cantiere dell’utopia». Ma invece.

«Riuscimmo a tirar fuori 300 mila frammenti di affreschi dalle macerie, ma di questi fu possibi­le ricollocarne soltanto 200 mila», spiega Giusep­pe Basile, responsabile del restauro di quei capo­lavori. E aggiunge: «Gli altri centomila frammen­ti degli affreschi o erano illeggibili perché troppo rovinati oppure erano davvero troppo piccoli per avere un senso. Qualcuno ci aveva suggerito di metterli su, comunque. Ma noi non abbiamo vo­luto ».

Non hanno voluto creare dei falsi nel restaura­re gli affreschi. In questo ad Assisi sono stati cate­gorici. Dice ancora Giuseppe Basile: «Ci siamo as­solutamente astenuti dall’integrare le parti man­canti se non usando quel sistema che si chiama: abbassamento ottico tonale del supporto. E’ un sistema inventato da Cesare Brandi e ce lo copia­no in tutto il mondo, ovvero: lì dove manca un pezzo di affresco si dà una mano di acquarello scuro che fa retrocedere lo sguardo e annulla la percezione del buco. Ma che può anche essere cancellato in qualsiasi momento, volendo».

Ovviamente non si può dire lo stesso per le par­ti strutturali della Basilica: lì i pezzi mancanti so­no stati per forza sostituiti. «Era inevitabile», commenta Maria Andoloro. Ma specifica: «Co­munque non possiamo definire un ’falso’ la ricostruzione strut­turale della Basilica. Diciamo piuttosto che quelle giunture so­no state come le protesi per un corpo ferito».

Protesi certo. A differenza dei frammenti degli affreschi, per le briciole delle pietre della Basili­ca non fu possibile mettersi lì ad incollarle l’una con l’altra. «Ven­nero messe delle protesi ma per la prima volta venne anche speri­mentato un sistema elastico di ricostruzione, a prova di terre­moto » illustra Giuseppe Basile. Spiegando: «Invece di una meto­dologia rigida che prevedeva una colata di cemen­to, si decise di mettere nella struttura una serie di molle che avessero, appunto, una funzione elasti­ca. Ovvero: assorbire l’energia della scossa dissi­pandola subito dopo».