Gian Antonio Stella, Corriere della sera 9/4/2009, 9 aprile 2009
Troppo facile, fare il ponte di Messina. Detta così, certo, può sembrare solo una provocazione: anche chi non apprezza affatto, per mille motivi, l’idea di realizzare quel sogno deve ammetterlo: una grande nazione deve darsi grandi obiettivi
Troppo facile, fare il ponte di Messina. Detta così, certo, può sembrare solo una provocazione: anche chi non apprezza affatto, per mille motivi, l’idea di realizzare quel sogno deve ammetterlo: una grande nazione deve darsi grandi obiettivi. Non per megalomania: per mettersi alla prova. Dio sa quanto l’Italia abbia bisogno di credere in se stessa e scavalcare lo Stretto potrebbe essere un obiettivo formidabile. Ma vuoi mettere la sfida vera? Risanare un Paese disastrato: quella sarebbe la sfida vera. La più dura. La più difficile. La più doverosa. Tanto più dopo la catastrofe in Abruzzo. C’è un’emergenza, infatti, in Italia: uscire dalla cultura dell’emergenza. Quella che ci fa tirare fuori il meglio di noi stessi nei momenti più complicati o, come in questi giorni, più traumatici. Che ci fa dire con indulgenza che «anche nel calcio diamo il meglio quando rischiamo l’eliminazione». Che spinge qualcuno (il primo fu Gianni De Michelis) a teorizzare l’obbligo di darci delle «date- catenaccio» come un campionato mondiale, un’Expo, un’Olimpiade, un vertice politico planetario per essere poi costretti a rispettare i tempi. Che induce chi governa lo Stato o un Comune, una Regione o un ente pubblico, a rinunciare a priori alla corretta gestione di qualunque impegno per invocare un commissariamento. Col risultato che diventano «emergenza» anche un vertice italo-russo a Bari, un pellegrinaggio del Papa a Loreto, un mondiale di ciclismo su strada o addirittura il «compleanno» dell’Unità d’Italia del 2011 previsto, ovvio, da un secolo e mezzo. Tutti affidati, e certamente senza che Guido Bertolaso ne sia entusiasta, alla Protezione Civile. Compreso il restauro del David di Donatello. Che senso c’è? Proprio la tragedia dell’Aquila, dove la Protezione Civile sta facendo (bene) il lavoro per cui è nata, che non è supplire all’incapacità della politica di gestire gli impegni con tempi «occidentali », impone di dire le cose come stanno: il nostro Paese ha un urgentissimo bisogno di manutenzione. La quale non può partire che da una profonda presa di coscienza di come stanno le cose. Ne va della vita delle persone. Ne va della conservazione del nostro patrimonio artistico, paesaggistico, monumentale. Ne va della nostra cultura. Cioè della nostra anima. mai possibile che un Paese dove gli ascensori non hanno il piano numero 13 e gli aerei Alitalia non hanno la fila 13, si rifiuti cocciutamente di guardare in faccia la realtà? Eppure è lì, sotto gli occhi di tutti. Basta leggere, ad esempio, l’ultimo dossier sulle aree a rischio dell’Ispra, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, che ha messo insieme i numeri e i rapporti e le tabelle di tutti gli enti preposti al nostro territorio. Un dossier che dovrebbe togliere il sonno. Dice, ad esempio, che «i comuni italiani interessati da frane sono ad oggi 5.596, pari al 69% del totale», che quelli che corrono pericoli di livello «molto elevato» sono 2.839 e che queste frane «sono le calamità naturali che si ripetono con maggiore frequenza e causano, dopo i terremoti, il maggior numero di vittime e di danni a centri abitati, infrastrutture, beni ambientali, storici e culturali ». Ricordate le catastrofi di Salerno, della Val Pola, del Piemonte, di Sarno, di Soverato? Sono solo le più gravi: «A dicembre 2006 i fenomeni franosi verificatisi in Italia e censiti sono stati quasi 470.000 e hanno interessato un’area di circa 20.000 chilometri quadrati». Praticamente, accusa il dossier (documento pubblico ufficiale, mica elaborazione di qualche ambientalista duro e puro...), un decimo del nostro Paese «è classificato a elevato rischio per alluvioni, frane e valanghe » e questa «situazione di assoluta fragilità» viene «aggravata dal fatto che più di 2/3 delle aree esposte a rischio interessano centri urbani, infrastrutture e aree produttive strettamente connesse con lo sviluppo economico e sociale del Paese ». Una maledizione della natura nemica? Per niente: «Tra le cause del ’dissesto idrogeologico’, quelle di origine antropica vanno assumendo un peso sempre più rilevante». «La colpa è loro, ma questo non si può dire ai morti», masticò amaro undici anni fa il geologo Fabio Rossi, in uno sfogo raccolto dai giornali, guardando verso la slavina fangosa di Sarno che aveva inghiottito decine di vite. Colpa di chi, non avendo idea dei rischi che correva, aveva violentato la natura ammucchiando case su case là dove c’erano già state cinque frane dal 1841 al 1939 e addirittura trentasei dopo la seconda guerra mondiale. Loro no, forse non lo sapevano. Ma i sindaci, gli assessori, i tecnici comunali che per anni avevano chiuso un occhio? Dice il dossier dell’Ispra, che suona come un pesantissimo atto di accusa contro chi per anni non ha varato un piano di risanamento edilizio anti-sismico, che «l’Italia è uno dei Paesi a maggiore pericolosità in Europa. Le aree a maggiore rischio sismico sono quelle del settore friulano, lungo la dorsale appenninica centromeridionale, il margine calabro-tirrenico e la Sicilia sud-orientale». Non basta: «L’Italia è uno dei Paesi a maggiore pericolosità vulcanica. Le condizioni di maggior rischio riguardano l’area vesuviana e flegrea, l’isola d’Ischia, il settore etneo, le Isole Eolie e i Colli Albani». Di più: «La pericolosità di tali vulcani non è però legata solo alla loro attività, ma è anche da mettere in relazione alla probabilità di attivazione di fenomeni gravitativi con conseguenti onde di maremoto». L’ITALIA DELLE CASE IN ZONA ROSSA- Eppure, denuncia l’ex assessore campano all’Urbanistica Marco Di Lello, «nel dopo-terremoto del 1980, quello con epicentro in Irpinia, fu varato un ’piano Napoli’ con la realizzazione di 20mila alloggi dentro la zona rossa, quella sotto il Vesuvio. Per anni e anni hanno fatto finta che fosse una montagna e non un vulcano. Il vincolo di divieto edilizio su 250 chilometri quadrati l’ho messo io, nel 2003». Non solo: il progetto «dilelliano» di convincere la gente ad andarsene dall’area a rischio, dove ci sono «ditte» legate alla camorra che si vantano di tirar su un villino abusivo dalle fondamenta (si fa per dire) al tetto in 288 ore, si è rivelato alla lunga un fiasco: la gente spesso incassava i 30mila euro per trasferirsi e lasciava la casa ad altri. Tanto che, tirate le somme, i dati ufficiali dimostrarono che nel solo 2005 i napoletani che avevano lasciato la metropoli per trasferirsi nella sola San Giorgio a Cremano, per fare un esempio, erano stati 378. Un disastro. Dodici giorni ci metterebbe lo Stato, secondo il «piano d’evacuazione » più recente, a portare in salvo tutta la gente che vive sotto il vulcano. Da brividi. Eppure solo quattro giorni fa, alla vigilia del terremoto dell’Aquila, di quelle interminabili file di bare, delle polemiche sull’ospedale parzialmente crollato, il sindaco di San Sebastiano al Vesuvio Giuseppe Capasso, che è anche presidente della Comunità del Parco nazionale del Vesuvio, ha chiesto a Antonio Bassolino un «patto speciale» per i Comuni dell’area protetta lagnandosi delle voci secondo le quali «i tanto attesi effetti di una possibile ripresa economica» dovuti al «piano casa» berlusconiano «potrebbero non investire l’area vesuviana ». Di qui la richiesta di concedere agli abitanti dell’area «almeno di realizzare i sottotetti a copertura degli immobili esistenti ed assentiti». Ma come: ancora edilizia in piena «zona rossa»? E se domani il Vesuvio si sveglia di nuovo? Immaginiamo la risposta: hiiiiii, vulite fa’ ”o jettatore? Per carità: facciamo finta di niente. Purché, alla prossima tragedia, ci venga risparmiata almeno la lagna sulla «fatalità ». Scrive Luciano De Crescenzo che come la primavera è il pressappoco dell’estate e Bergamo è il pressappoco di Milano, l’Italia è «il pressappoco dell’Occidente ». Ecco, dopo L’Aquila potremmo evitare di fare una legge «pressappoco antisismica»?