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 2009  aprile 09 Giovedì calendario

Troppo facile, fare il ponte di Messina. Detta così, certo, può sembrare solo una provocazione: anche chi non apprezza affatto, per mille motivi, l’idea di realizzare quel sogno deve ammetterlo: una grande nazione deve darsi grandi obiettivi

Troppo facile, fare il ponte di Messina. Detta così, certo, può sembrare solo una provocazione: anche chi non apprezza affatto, per mille motivi, l’idea di realizzare quel sogno deve ammetterlo: una grande nazione deve darsi grandi obiettivi. Non per megalomania: per mettersi alla prova. Dio sa quanto l’Italia abbia bisogno di credere in se stessa e scavalcare lo Stretto potrebbe essere un obiettivo formidabile. Ma vuoi mettere la sfida ve­ra? Risanare un Paese disastra­to: quella sarebbe la sfida vera. La più dura. La più difficile. La più doverosa. Tanto più dopo la catastrofe in Abruzzo. C’è un’emergenza, infatti, in Italia: uscire dalla cultura del­l’emergenza. Quella che ci fa ti­rare fuori il meglio di noi stessi nei momenti più complicati o, come in questi giorni, più trau­matici. Che ci fa dire con indul­genza che «anche nel calcio dia­mo il meglio quando rischia­mo l’eliminazione». Che spin­ge qualcuno (il primo fu Gian­ni De Michelis) a teorizzare l’obbligo di darci delle «da­te- catenaccio» come un cam­pionato mondiale, un’Expo, un’Olimpiade, un vertice politi­co planetario per essere poi co­stretti a rispettare i tempi. Che induce chi governa lo Stato o un Comune, una Regione o un ente pubblico, a rinunciare a priori alla corretta gestione di qualunque impegno per invo­care un commissariamento. Col risultato che diventano «emergenza» anche un vertice italo-russo a Bari, un pellegri­naggio del Papa a Loreto, un mondiale di ciclismo su strada o addirittura il «compleanno» dell’Unità d’Italia del 2011 pre­visto, ovvio, da un secolo e mezzo. Tutti affidati, e certa­mente senza che Guido Bertola­so ne sia entusiasta, alla Prote­zione Civile. Compreso il re­stauro del David di Donatello. Che senso c’è? Proprio la tragedia dell’Aqui­la, dove la Protezione Civile sta facendo (bene) il lavoro per cui è nata, che non è supplire all’in­capacità della politica di gesti­re gli impegni con tempi «occi­dentali », impone di dire le cose come stanno: il nostro Paese ha un urgentissimo bisogno di manutenzione. La quale non può partire che da una profon­da presa di coscienza di come stanno le cose. Ne va della vita delle persone. Ne va della con­servazione del nostro patrimo­nio artistico, paesaggistico, mo­numentale. Ne va della nostra cultura. Cioè della nostra ani­ma.  mai possibile che un Paese dove gli ascensori non hanno il piano numero 13 e gli aerei Ali­talia non hanno la fila 13, si ri­fiuti cocciutamente di guarda­re in faccia la realtà? Eppure è lì, sotto gli occhi di tutti. Basta leggere, ad esempio, l’ultimo dossier sulle aree a rischio del­­l’Ispra, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Am­bientale, che ha messo insieme i numeri e i rapporti e le tabelle di tutti gli enti preposti al no­stro territorio. Un dossier che dovrebbe togliere il sonno. Dice, ad esempio, che «i co­muni italiani interessati da fra­ne sono ad oggi 5.596, pari al 69% del totale», che quelli che corrono pericoli di livello «mol­to elevato» sono 2.839 e che queste frane «sono le calamità naturali che si ripetono con maggiore frequenza e causano, dopo i terremoti, il maggior nu­mero di vittime e di danni a centri abitati, infrastrutture, be­ni ambientali, storici e cultura­li ». Ricordate le catastrofi di Sa­lerno, della Val Pola, del Pie­monte, di Sarno, di Soverato? Sono solo le più gravi: «A di­cembre 2006 i fenomeni frano­si verificatisi in Italia e censiti sono stati quasi 470.000 e han­no interessato un’area di circa 20.000 chilometri quadrati». Praticamente, accusa il dos­sier (documento pubblico uffi­ciale, mica elaborazione di qual­che ambientalista duro e pu­ro...), un decimo del nostro Pa­ese «è classificato a elevato ri­schio per alluvioni, frane e va­langhe » e questa «situazione di assoluta fragilità» viene «aggra­vata dal fatto che più di 2/3 del­le aree esposte a rischio interes­sano centri urbani, infrastruttu­re e aree produttive strettamen­te connesse con lo sviluppo economico e sociale del Pae­se ». Una maledizione della na­tura nemica? Per niente: «Tra le cause del ’dissesto idrogeolo­gico’, quelle di origine antropi­ca vanno assumendo un peso sempre più rilevante». «La colpa è loro, ma questo non si può dire ai morti», ma­sticò amaro undici anni fa il ge­ologo Fabio Rossi, in uno sfo­go raccolto dai giornali, guar­dando verso la slavina fangosa di Sarno che aveva inghiottito decine di vite. Colpa di chi, non avendo idea dei rischi che correva, aveva violentato la na­tura ammucchiando case su ca­se là dove c’erano già state cin­que frane dal 1841 al 1939 e ad­dirittura trentasei dopo la se­conda guerra mondiale. Loro no, forse non lo sapevano. Ma i sindaci, gli assessori, i tecnici comunali che per anni avevano chiuso un occhio? Dice il dossier dell’Ispra, che suona come un pesantissimo atto di accusa contro chi per an­ni non ha varato un piano di ri­sanamento edilizio anti-sismi­co, che «l’Italia è uno dei Paesi a maggiore pericolosità in Eu­ropa. Le aree a maggiore ri­schio sismico sono quelle del settore friulano, lungo la dorsa­le appenninica centromeridio­nale, il margine calabro-tirreni­co e la Sicilia sud-orientale». Non basta: «L’Italia è uno dei Paesi a maggiore pericolosità vulcanica. Le condizioni di maggior rischio riguardano l’area vesuviana e flegrea, l’iso­la d’Ischia, il settore etneo, le Isole Eolie e i Colli Albani». Di più: «La pericolosità di tali vul­cani non è però legata solo alla loro attività, ma è anche da mettere in relazione alla proba­bilità di attivazione di fenome­ni gravitativi con conseguenti onde di maremoto». L’ITALIA DELLE CASE IN ZONA ROSSA- Eppure, denuncia l’ex asses­sore campano all’Urbanistica Marco Di Lello, «nel dopo-ter­remoto del 1980, quello con epicentro in Irpinia, fu varato un ’piano Napoli’ con la realiz­zazione di 20mila alloggi den­tro la zona rossa, quella sotto il Vesuvio. Per anni e anni hanno fatto finta che fosse una monta­gna e non un vulcano. Il vinco­lo di divieto edilizio su 250 chi­lometri quadrati l’ho messo io, nel 2003». Non solo: il progetto «dilelliano» di convincere la gente ad andarsene dall’area a rischio, dove ci sono «ditte» le­gate alla camorra che si vanta­no di tirar su un villino abusi­vo dalle fondamenta (si fa per dire) al tetto in 288 ore, si è ri­velato alla lunga un fiasco: la gente spesso incassava i 30mi­la euro per trasferirsi e lasciava la casa ad altri. Tanto che, tira­te le somme, i dati ufficiali di­mostrarono che nel solo 2005 i napoletani che avevano lascia­to la metropoli per trasferirsi nella sola San Giorgio a Crema­no, per fare un esempio, erano stati 378. Un disastro. Dodici giorni ci metterebbe lo Stato, secondo il «piano d’eva­cuazione » più recente, a portare in salvo tutta la gente che vive sotto il vulcano. Da brividi. Ep­pure solo quattro giorni fa, alla vigilia del terremoto dell’Aquila, di quelle interminabili file di ba­re, delle polemiche sull’ospedale parzialmente crollato, il sindaco di San Sebastiano al Vesuvio Giu­seppe Capasso, che è anche pre­sidente della Comunità del Par­co nazionale del Vesuvio, ha chiesto a Antonio Bassolino un «patto speciale» per i Comuni dell’area protetta lagnandosi del­le voci secondo le quali «i tanto attesi effetti di una possibile ri­presa economica» dovuti al «pia­no casa» berlusconiano «potreb­bero non investire l’area vesuvia­na ». Di qui la richiesta di conce­dere agli abitanti dell’area «alme­no di realizzare i sottotetti a co­pertura degli immobili esistenti ed assentiti». Ma come: ancora edilizia in piena «zona rossa»? E se domani il Vesuvio si sveglia di nuovo? Immaginiamo la rispo­sta: hiiiiii, vulite fa’ ”o jettatore? Per carità: facciamo finta di niente. Purché, alla prossima tragedia, ci venga risparmiata almeno la lagna sulla «fatali­tà ». Scrive Luciano De Crescen­zo che come la primavera è il pressappoco dell’estate e Berga­mo è il pressappoco di Milano, l’Italia è «il pressappoco del­l’Occidente ». Ecco, dopo L’Aquila potremmo evitare di fare una legge «pressappoco antisismica»?