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 2009  aprile 07 Martedì calendario

L’ABBUFFATA DEI BUCHI NERI


Alzate gli occhi e potreste assistere al colossale pranzo dei buchi neri. Ma dovete avere lo sguardo di un Nobel della fisica, l’italiano-americano Riccardo Giacconi.
«Quando studi il cielo ai raggi X - spiega - si vede un bagliore diffuso». E’ il contrario di quello scuro delle classiche foto astronomiche. «E non capivamo perché. Poi ci siamo accorti che ci sono tante sorgenti puntiformi, a grande distanza da noi. Il satellite ”Chandra” ha una forte risoluzione angolare e ne ha identificati milioni. Anche il telescopio spaziale ”Hubble” li ha ripresi e poi ne abbiamo misurato lo spettro con il ”Very Large Telescope” in Cile. Abbiamo scoperto che si tratta di buchi neri supermassicci, milioni di volte più della massa solare, e che si stanno mangiando un po’ dell’ambiente circostante, come le stelle».
E’ questo il banchetto dei buchi neri, uno degli spettacoli dell’Universo che Giacconi - oggi university professor alla Johns Hopkins University di Baltimora - studia da quando si occupò nel 1970 del satellite «Uhuru», con cui si aprì l’esplorazione del cielo profondo (a raggi X, appunto).
Professore, lei è stato invitato a Roma, all’Accademia dei Lincei, a raccontare come cambia la nostra visione dell’Universo: è vero che ora volete scoprire perché i buchi neri sono così tanti?
«Se ce ne sono così tanti, è chiaro che hanno giocato qualche funzione nel formarsi delle galassie. Ora vorremmo capire in che rapporti stanno con le loro fluttuazioni».
Lei sostiene che l’astronomia si scontra con molte sorprese: a che cosa si riferisce?
«Cercavamo la ”Costante di Hubble” per tentare di concludere se l’Universo è chiuso o aperto e ora, invece, tutto si complica: si è scoperta una fase ”di ritardo” all’inizio della storia del cosmo, seguita da una fase di espansione. La prima è dominata dalla materia oscura, mentre la seconda dall’energia oscura. Indipendentemente da quale sia dominante, oggi non è possibile fare previsioni sul futuro. Ma ancora più sorprendente è il fatto che, della materia esistente, quella di cui capiamo la natura è solo il 3%: è una situazione che dà una forma di smarrimento».
Il sapere cresce e così gli interrogativi: succede in molte discipline, anche nella biologia.
«E’ normale: più studiamo, più il quadro si complica. Siamo nella situazione di 400 anni fa, ai tempi di Galileo: l’astronomia doveva spiegare perché i pianeti si muovono come si muovono e c’è voluta una nuova fisica, quella newtoniana. Ora stiamo mettendo insieme un’enorme massa di dati, ma avremmo bisogno di un altro Newton che ci spieghi tanti perché. Siamo alla ricerca di una teoria unificata: viviamo un punto di svolta».
«Chandra» è un’altra sua creatura: oltre i buchi neri, questo satellite che da 10 anni ruota sulle nostre teste, nel 2006 ha raccolto le prime prove della materia oscura e ha individuato l’eco del buco nero al centro della Via Lattea. Quali sono gli ultimi dati?
«Gli ultimi risultati importanti sono due. Il primo riguarda la materia oscura: già all’inizio degli Anni 70 avevamo scoperto con il satellite ”Einstein” che all’interno degli ammassi c’è un gas - o, meglio, un plasma, visto che è ionizzato - di altissima temperatura, circa 100 milioni di gradi: dato che lo spazio tra galassie è enorme, questo gas contiene 10 volte più materia di quello che c’è nelle galassie stesse, e tuttavia non è abbastanza per tenere insieme gli ammassi. L’unica spiegazione era la presenza della materia oscura. ”Chandra” ha osservato lo scontro di due di questi ammassi: è proprio nel gas che è visibile la collisione. E’ un’onda d’urto, simile a quella di un aereo che rompe il muro del suono. Le galassie, invece, non si sono ”accorte” dell’urto, perché sono così lontane le une dalle altre da essere quasi trasparenti. E la materia oscura? Non ha fatto niente, non ha interagito: i nostri dati rappresentano le informazioni più convincenti».
E qual è il secondo risultato?
«Riguarda gli equilibri tra materia oscura ed energia oscura: se questa prevale, gli ammassi fanno fatica a crescere e, studiandone l’evoluzione, speriamo di capire i loro rapporti».
Lei si è occupato anche della realizzazione del telescopio orbitante «Hubble»: lanciato nel 1990, è sempre più acciaccato e rischia di finire «ko»: è pessimista?
«No. Al momento si pensa ancora di aggiustarlo: vuol dire cambiare un po’ di strumenti, come i giroscopi. Comunque, poveretto, ha fatto molto lavoro. Abbiamo cambiato tutto quello che si può, ma il progetto è vecchio di 30 anni».
Ora si progetta il successore: che promesse riserva?
«Il ”James Webb Space Telescope” non sarà un telescopio ottico, ma lavorerà prevalentemente nell’infrarosso, e non avrà la stessa risoluzione angolare di ”Hubble”. Parte del lavoro verrà quindi fatto a terra, con la tecnica dell’ottica adattiva, grazie al ”Very Large Telescope”. E proprio il VLT ha osservato di recente il ”vuoto” di stelle accanto al buco nero che si trova nella nostra galassia».