Stefano Boeri, la Stampa 7/4/2009, 7 aprile 2009
QUELLE CASE MODERNE MA DI SABBIA
Ci sono intere parti delle nostre città da rottamare. Case, scuole, ospedali, carceri così intimamente fragili nelle strutture da essere esposti anche ai movimenti tellurici meno intensi. Ma la tragedia di questi giorni ci dice con crudele evidenza che queste porzioni «deboli» delle città non corrispondono necessariamente alle loro zone più antiche: ai centri storici medioevali o alle estensioni rinascimentali; e neppure alle zone residenziali ottocentesche o alle urbanizzazioni del ventennio fascista. A crollare su se stessi, a implodere come gusci vuoti, sono spesso edifici costruiti negli Anni 50 e 60. E sono troppo spesso edifici pubblici, servizi collettivi, luoghi di lavoro e di sosta abitati simultaneamente - anche nelle ore notturne - da decine e centinaia di individui.
Il terremoto di questi giorni ci racconta crudelmente di un territorio che anche nei crolli - non solo nelle edificazioni - mette in scena le ombre e le meschinità della nostra storia. Ci dice di edifici costruiti in fretta e al risparmio, cercando di usare meno ferro possibile, e un calcestruzzo ricco di sabbia e povero di cemento. Di imprese edili irresponsabili e di una committenza pubblica già allora priva di scrupoli e di rigore, oltre che di norme capaci di fissare dei requisiti minimi di resistenza strutturale. Di almeno due decenni di un’edilizia ebbra di velocità e potenza muscolare.
Di architetture arroganti nelle facciate e fragilissime nelle strutture. Ma è bene dirci che la tragica rottamazione spontanea di questi giorni è anche una paradossale caricatura delle ipotesi di demolizione e sostituzione degli edifici «non sostenibili» introdotte dal Piano casa proposto dal governo. Anche per questo, la tragedia dell’Abruzzo non deve restare senza risposte adeguate, come troppo spesso è accaduto in un passato anche recente. Il fatto è che siamo schiavi di una politica del territorio che alterna zone di vincolo apodittico ad altre di totale libertà di movimento e che non riesce ad accettare l’idea di una modernizzazione spinta e insieme rigorosa.
Eppure è proprio di questo che avremmo bisogno, oggi. Di una mobilitazione delle risorse diffuse della nostra società che non diventi assenza di regole condivise. Di politiche che normino con forza i requisiti delle costruzioni edili e che lascino invece più libertà nelle destinazioni d’uso e nelle possibilità di crescita su se stessi degli edifici. Avremmo estremo bisogno di una legge che consideri il rischio sismico un fattore territoriale per incentivare le opere di demolizione e sostituzione edilizia, attraverso meccanismi fiscali o premi volumetrici. E di una grande campagna di monitorizzazione dell’edilizia pubblica e privata realizzata nel secondo dopoguerra italiano che mobiliti proprio quelle energie molecolari - le famiglie, le piccole imprese, i professionisti - a cui giustamente si rivolge il Piano casa del governo. Perché non basta conoscere le aree a rischio sismico; dobbiamo sapere quali sono le zone urbane fragili, e quali sono gli edifici più esposti.
In Italia abbiamo uno dei più accreditati centri di rilevazione sismografica (a Pavia) e la Protezione Civile più efficiente, generosa, rapida del mondo, ma ci manca l’idea di un’emergenza costante che deriva da decenni di incuria e superficialità; quel tipo di emergenza che non riguarda il come rispondere a eventi sporadici e imprevedibili, ma il come cambiare con assoluta urgenza uno stato di cose ormai insostenibile. Perché proprio questo, se permettete, è l’ultimo crudele paradosso che ci viene dall’Abruzzo: ci riempiamo tutti la bocca della parola «sostenibilità» senza accorgerci delle migliaia di costruzioni che, attorno a noi, non si sostengono più da sole.