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 2009  aprile 07 Martedì calendario

MARIO BAUDINO PER LA STAMPA


Il problema non è l’inglese. E nemmeno il congiuntivo. Neppure Internet. Il problema vero è che cosa ci dice di noi l’invasione dei tic, quel fenomeno cioè «che ha formato, negli ultimi anni, un universo parallelo, docile e leggero come lo spirito shakespeariano di Ariel, fatto soltanto di parole, le quali simulano disperatamente esperienze sempre più virtuali e immaginarie». In questo caso «non c’è riforma della lingua che possa restituire l’esperienza reale». Lo scrive Filippo La Porta, critico letterario molto attento agli aspetti sociali ed etici della letteratura e del linguaggio, nel suo pamphlet, in uscita da Gaffi, che si intitola, e non potrebbe essere altrimenti viste le premesse: un problema tuo. Parrebbe una frase fatta come tante altre, che si è imposta negli ultimi anni, è diventata un mantra, un refrain buono a tutti gli usi. Ma nasconde un modo di pensare, osserva La Porta, sulla scia ovviamente di Nanni Moretti, che in Palombella rossa tuonava contro chi «parla male» perché «pensa e vive male».

Qui si va ben oltre la battuta: il libro si occupa non tanto del «pensar male» che si nasconde dietro alle frasi fatte, ma di ciò che le frasi fatte dicono del nostro mondo: perché ci tendono i loro agguati in maniera automatica, e sono numerose come un’invasione biblica di cavallette, tutte eguali all’apparenza, spesso con una vita relativamente breve, simile a quella degli insetti. Chi ricorda, per restare alla Bibbia, quelle «parole pesanti come pietre» che, nonostante un rilancio illustre da parte di Carlo Levi, si erano inflazionate a dismisura, soprattutto sui media? La carrellata di La Porta evita i tic altisonanti, sguscia tra quelli romaneschi ricordando come siano molto presenti nell’italiano standard, interpretati generalmente come elementi di attualità, energia, freschezza, e plana sui mostri meno appariscenti, concentrandosi sui più duraturi. Ad esempio «in tempo reale», o «mi rimbalza» per dire «non me ne importa niente», osservando che l’espressione rivela un’idea elastica del corpo, quasi fosse un pallone. O un materasso .

C’è poi l’inevitabile «alla grande», nato con la traduzione italiana di Going on style, un film del 1979 di Martin Brest. legittimo chiedersi se le cose fatte alla grande siano le migliori, visto che esiste il Dio delle piccole cose (anche se, com’è noto almeno ai lettori della Stampa, la sua autrice, l’indiana Arundhati Roy, comincia a sentirsene oppressa). Né possono mancare le interiezioni «niente» e «come dire». Nella prima si compendia «il minimalismo d’élite degli anni Ottanta», insomma un «pensiero debole portatile perfezionato in forma di massa», che va benissimo per rassicurare l’interlocutore. La Porta cita un telegiornale dell’epoca, dove dallo studio si chiede all’inviato a Cernobil: «Che cosa è successo» e quello risponde: «Niente... c’è stato un gran fumo»; poi inizia a raccontare la tragedia della centrale atomica. Alla seconda frase fatta dedica invece un’analisi approfondita. Che cosa ci racconta infatti l’uso del «come dire?» Che «forse si è compiutamente realizzato quello che aveva predetto Ennio Flaiano quando osservò che il cretino è pieno di idee».

Suona un po’ troppo aggressiva come risposta? Allora spieghiamo. C’è una sorta di analfabeta di ritorno, beneinformato e adattabile, magari esperto di informatica, attento alle mode, ma sostanzialmente «orecchiante», che sembra ossessionato dal «come dire» le cose. Viviamo, dopo gli anni di piombo, dopo l’edonismo reaganiano, negli anni della retorica, e l’espressione «congeniale soprattutto al nostro ceto intellettuale progressista (ma non solo)» li rappresenta bene. Esibisce un «disagio espressivo» che vogliamo a tutti i costi comunicare al nostro interlocutore, come se l’argomento che stiamo per affrontare fosse davvero molto complesso e solo noi ne possedessessimo la chiave. narcisismo intellettuale, serve a darci un tono. Insomma, per tornare a un tic linguistico altrettanto diffuso, è un modo di tirarsela. E già sul «se la tira» si potrebbero dire cose interessanti, peccato che non compaiaia nel dizionario illuminista di La Porta.

Non manca invece l’irrefrenabile «in qualche modo»: «Poche espressioni come questa - scrive il critico - sono in grado di riassumere la quintessenza di una italianità adattativa e trasformista (un po’ convenzionale ma non del tutto immaginaria)», dove «il giudizio morale viene prudentemente sospeso, o diluito entro una rete causale di estensione illimitata». «In qualche modo» ce la caveremo sempre, basterà un «attimino», tic non troppo recente (lo si fa risalire ai primi anni Ottanta, luogo di nascita una trasmissione sportiva condotta da Roberto Bettega) ormai bandito anche dai talk show. In ogni caso «non c’è problema», sentenzia la lingua collettiva.

Suona come una intenzione terapeutica, dovrebbe servire a tranquillizzare, a escludere complicazioni. Spesso è vero il contrario. Viene ancora una volta in mente al critico un film, Il fantasma della libertà di Luis Buñuel (1971); dove un medico visita il paziente con aria tranquillizzante e persino noncurante, e poi gli comunica la diagnosi: cancro. Non c’è problema. O meglio, non è nostro. E’ «tuo». Forse un po’ di responsabilità va ascritta alla psicanalisi, e alla diffusione del suo linguaggio, ma certo il trionfo di «è un problema tuo», ultimo slogan martellante nelle conversazioni quotidiane, dovrebbe dar da pensare. «Affermando che è un problema tuo, do per scontato che quindi non è mio», e insomma non me ne importa niente. sottolinea La Porta. Il mio tic linguistico non mette l’interlocutore di fronte alle sue responsabilità, ma gli dice anzi che a me «non potrebbe fregare di meno».

Gli comunica un altro tic, che appartiene a entrambi, e se pure suona «di chiara origine capitolina» ormai è dovunque nel Paese. L’indifferenza viene spettacolarizzata, esibita, gettata mollemente in faccia all’interlocutore, senza necessità. Frasi del genere, osserva La Porta, non si inventano in una sola giornata. Occorrono secoli di preparazione, partendo dal Guicciardini per arrivare al Belli. Sono una forma di autocoscienza collettiva. Il «non me ne importa» o il «me ne frego» di ascendenza littoria vengono esaltati fino all’iperbole in questa espressione anguidamente feroce e persino compiaciuta. Come dire, è quasi un manifesto: ma forse solo in qualche modo.