Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  aprile 07 Martedì calendario

Abdulqader, il giorno in cui nel suo paese, Galcayo, sono arrivati i «reclutatori» della filibusta islamica lo ricorda benissimo: se ne stava accucciato nell’ombra di un muro ad ammazzare la noia masticando il qat

Abdulqader, il giorno in cui nel suo paese, Galcayo, sono arrivati i «reclutatori» della filibusta islamica lo ricorda benissimo: se ne stava accucciato nell’ombra di un muro ad ammazzare la noia masticando il qat. Cattivo per di più, della qualità più schifosa che quegli imbroglioni di keniani, che Allah li faccia crepare, riservano ai poveracci come lui, quelli che non hanno gli scellini per comprarlo fresco verde e fragrante, da masticare per ore e ore in bocca sognando di essere ricco, felice, da un’altra parte. Se qualcuno allora gli avesse mai raccontato che nei libri è scritto che questo sudicio pezzo di deserto affacciato sulle tempeste dell’Oceano Indiano si chiamava «il paese di Punt» e ci venivano gli inviati dei faraoni egiziani, dei gran signori dell’epoca, a prendere l’incenso e la mirra, si sarebbe messo a ridere. Il paese di Punt! Ma via, lui è cresciuto senza acqua corrente e energia elettrica fino a 46 anni, con la fame attaccata addosso. Non sa leggere e scrivere. Così ignora che sul sito ufficiale di «Puntland state of Somalia» qualche locale poeta della pubblicità ha scritto «venite, troverete clima temperato e l’ospitalità di una terra calorosa». Abdulqader, in teoria, era muratore come suo padre e suo nonno; in teoria, perché non c’era niente da costruire, allora. Neppure la casa era riuscito a mettere in piedi, non aveva mattoni calce, niente, e viveva in una rovina aperta ai quattro venti al centro di Galcayo con i sei figli stipati dentro nella sporcizia e l’unica moglie; già una sola, perché non aveva soldi per comprarne un’altra. Abduraman, Daher, Guled, i due fratelli Samatar, gli amici, se n’erano andati da un pezzo; avevano avuto coraggio loro, si erano arruolati nelle bande dei miliziani. I Samatar un giorno hanno acchiappato un occidentale, un cooperante canadese sciaguratamente finito nel posto sbagliato: un milione di scellini somali, circa 800 mila euro, si erano messi in tasca e ancora se ne parla a Galcayo e gli occhi ai ragazzi che giocano con i mitra di legno diventano subito lucidi. Ma quell’epoca è finita, i signori della guerra sono in disgrazia da quando sono arrivati gli islamisti, gente che taglia mani e qualcos’altro a chi non riga dritto, ovvero non fa come vogliono loro. Adesso sono i tempi dei pirati. Comunque se non hai un arma nel Puntland sei meno di un uomo, crepi di fame. Oggi non c’è più una ragazza, brutta o carina, che degni di dare un’occhiata ai pescatori, artigiani o miliziani: vogliono sognano sospirano tutte per i pirati. Così quel giorno, sia ringraziato Allah potente e misericordioso, gettò alle artiche gli scrupoli, cambiò mestiere e divenne pirata. Gli diedero subito del denaro per fare il viaggio fino a Hobyo, il porto dove c’è la flotta e il capitano. Quando arrivò, a dire il vero, rimase deluso: una terra di nessuno spelacchiata, uniforme che fai in fretta a raccontarla: qualche alberuccio spinoso qua e la, cammelli dall’aria rancorosa e soprattutto gente armata, tanta. Sul mare imbarcazioni dall’aria rustisca ondeggiavano pigre esibendo dei motori fuori bordo nuovi di zecca, incongrui, fuori posto. Il comandate, quello, gli era piaciuto: Abdullah Hassan, una leggenda, 39 anni ma gli occhi di chi ha già fissato lo sguardo in cose indimenticabili. L’avresti detto che prima faceva il pescatore e crepava di fame? Adesso dicono che guadagni almeno 350 mila dollari l’anno e comanda il più famoso e pestifero gruppo di «guardia-coste» dell’Oceano Indiano; qui i corsari li chiamano così. Benvenuto nel Piratistan, gli dissero e gli spiegarono il contratto. Allora: i migliori vanno in mare, sulle lance, a caccia delle prede. Vabbè, adesso ci sono le navi da guerra occidentali e tutto è un po’ più complicato, bisogna spingersi più al largo ma quei soldatini in fondo non danno troppo fastidio. Prendete ieri, un giorno a caso nell’oceano indiano: tre prede, uno yacht francese, un peschereccio di Taiwan e una nave inglese da ventimila tonnellate. Vi sembra che vada così male? Accanto agli abbordatori ci sono gli altri, quelli che devono occuparsi delle barche, di controllare gli ostaggi, procurare il qat quotidiano. Si divide, come ai tempi di Morgan, dopo ogni colpo, rigorosamente a seconda delle responsabilità e dei rischi: si comincia dal capitano e poi via via gli altri, senza litigare e fare i furbi perché la legge della filibusta somala è severa come quella della Tortuga di un tempo. Abdulqader adesso ci crede un po’ a quella storia del Puntland, terra della mirra e dei faraoni... Era in barca il giorno in cui hanno abbordato un veliero francese di nome Ponant; due milioni di dollari hanno ottenuto per ridarlo indietro. Per quella «bella operazione» sei poveracci che non c’entravano niente, erano solo dei portatori di qat, sono in galera a Parigi e rischiano l’ergastolo. Li hanno catturati con le forze speciali, come sono stupidi questi occidentali! A lui sono toccati diecimila dollari, si è comprato un pikup, adesso ce l’ha la seconda moglie, molto più giovane e carina della prima.