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 2009  aprile 06 Lunedì calendario

INDRO MONTANELLI

(da I conti con me stesso - Diari 1957-78 a cura di Sergio Romano, Rizzoli)

Corriere della Sera, domenica 29 marzo
il Giornale, mercoledì 1 aprile
 uscito mercoledì scorso da Rizzoli I conti con me stesso di Indro Montanelli. I brani - aneddoti, appunti, riflessioni private - provengono da dodici quaderni custoditi presso il Fondo manoscritti dell’Università di Pavia e coprono vent’anni della storia d’Italia.

Gennaio 1958
Bacchelli lavora infaticabilmente, da sessant’anni, alla costruzione di un piedestallo su cui, alla sua morte, non sapremo cosa posare.

Roma, 26 settembre 1966
Castiello mi dice che Saragat è in preda a una crisi di furore nazionalista contro i terroristi dell’Alto Adige. Voleva chiamare il capo della polizia, Vicari, per ordinargli di spedire a Innsbruck dei sicari per uccidere i mandanti. «Una democrazia che si rispetti» ha urlato, «è tenuta ad astenersi dal delitto, ma solo dentro le proprie frontiere. Al di là di esse...».

Roma, 1˚ ottobre 1966
Alla sera, mi fanno assistere a una proiezione privata de La battaglia di Algeri di Pontecorvo. A Venezia lo hanno definito, all’unanimità, un grande film e gli hanno dato il Leon d’oro. invece solo un grande documentario e non meritava nulla. Siamo stufi di questa roba. Non - come dice qualcuno - perché questi lavori c’impongono «una scelta morale» o ci ricordano corresponsabilità che vorremmo dimenticare. E nemmeno perché siamo nauseati dalle scene di violenza e di sangue. Quello di cui siamo stufi è, molto più semplicemente, il ricatto a cui ci sottopongono. Bella forza fare un film sui campi di concentramento nazisti e sulla rivolta di Algeria. Chi oserà dar torto a un regista che parteggia per i perseguitati?

5 ottobre 1966
In tv, per un dibattito sulla Battaglia di Algeri, con l’autore Pontecorvo e il critico Liverani. « un bellissimo film» dichiaro, «che merita pienamente il Leone d’Oro per il suo impegno, il suo rigore eccetera». Anch’io riservo il mio coraggio a questo Diario.

Milano, 27 novembre 1966
A pranzo con Ottone, appena rientrato da Mosca, e con Bettiza, da poco tornato dall’Europa orientale. Secondo Ottone, in Russia si sta delineando una specie d’Illuminismo che, scendendo dal vertice, investirà anche la base, e gradualmente liquiderà il sistema in senso socialdemocratico. Bettiza non è d’accordo. Secondo lui il processo non sarà evolutivo, ma procederà per successive lacerazioni, per la totale mancanza, anzi impossibilità, di una «dialettica interna». Devo dire che l’analisi di Bettiza mi persuade di più, forse anche perché mi persuade di più l’uomo.

Roma, 12 dicembre 1966
Grande cocktail alla nuova sede Rizzoli in via Veneto per la presentazione del nostro libro e di quello di Berto. Inestricabile pigia-pigia. Ci sono ministri, giornalisti, letterati. C’è anche Maria Bellonci che spia l’occasione di farmi i rallegramenti. Sono vent’anni che non ci salutiamo. Mi aveva tolto il saluto nel ”48 quando, in una cronaca da Venezia sul Pen-Club di cui era presidentessa, scrissi che la chiamavano l’aigle à deux têtes (per via dei suoi dirompenti seni di gomma). Suo marito Goffredo sfidò a duello il mio direttore Emanuel, che gli rispose: «Non mi rompa i bellonci!». Non ci eravamo più incontrati. E ora, nel vederla così ansiosa di un ravvicinamento, mi sento in imbarazzo. Alla fine vado io a salutarla. Ma subito scappo, dandole forse l’impressione che ho dei rimorsi. Invece non li ho.

Castiglioncello, 10 luglio 1969
Lettera di Prezzolini che mi ringrazia perché l’ho citato in due articoli. Dice: «Ti sono grato di queste continue testimonianze di affetto e di simpatia...». Non è vero. Preferirebbe che non parlassi affatto di lui, o che ne parlassi male, per poter pensare che anch’io l’ho dimenticato o tradito, che non c’è nessuno, proprio nessuno, che gli sia rimasto amico. Non gli darò questa soddisfazione. Voglio che muoia almeno con un piccolissimo dubbio sulla ingratitudine degli uomini, su cui per tutta la vita ha fatto così comodo assegnamento.

Roma, 3 agosto 1969
Da due giorni qui, in casa dei miei vecchi. Da mia madre ho ereditato soltanto le terribili crisi depressive che a regolari scadenze mi distruggono, ma non il coraggio con cui lei le affrontava: il coraggio di chi vive tutto e solo di cuore. L’ho odiata, per questo male di cui mi ha contaminato. Una volta, al colmo della disperazione, glielo rinfacciai. Ecco di cosa mi ricorderò, quando sarà morta. Di questo, e di un altro giorno in cui lei mi disse, ma quietamente, senza intenzione di ferirmi: «Lo sai che ho soggezione di te?». Sono passati tanti anni da allora. Ora lei ne ha ottantatré, presto chiuderà gli occhi, e solo in quel momento io troverò la voce per dirle che non è vero, non potevo farle soggezione, non volevo fargliela, era assurdo e mostruoso che gliela facessi… Perché non glielo dico ora, che mi può sentire? Perché? Perché?

Cortina, 19 agosto 1969
Scalfari mi attacca sull’Espresso. Licia Compagna ad avvertirmene e a porgermi il giornale. Si meraviglia ch’io mi limiti a misurare la lunghezza dell’articolo. «Non lo leggi?» chiede. «No. Vedo solo che parla di me per una cinquantina di righe. E mi basta. A pubblicità donata non si guarda in bocca.» Colgo nei suoi occhi un lampo d’ammirazione. Ma a casa l’articolo lo leggo. E mi arrabbio. Però decido di rispondere solo domani, quando la rabbia mi sarà sbollita.

Cortina, 20 agosto 1969
Ho risposto a Scalfari. Era facile. Scalfari è uno di quei duellatori che, per imprimere più forza al fendente, seguono col corpo la sciabola e perdono la guardia. Ci vuol poco a infilarli. Ma ora che ho spedito la replica, mi chiedo se ho fatto bene. Di Scalfari non ho un’opinione precisa. C’è in lui un pizzico di Baldacci, un pizzico di Bel-Ami, e perfino un pizzico di Ramperti. So che ha fatto parecchi soldi. La sua ambizione è sfrenata e scoperta. Ma vuole arrivare a qualcosa, o vuole fuggire da qualcosa? Nella sua frenesia c’è del patologico. Le sue polemiche (come questa con me) sono quasi sempre gratuite. Questo nemico di tutti è soprattutto nemico di se stesso, animato da un irresistibile cupio dissolvi.

Milano, 16 novembre 1969
Mi riferiscono, di Bocca, questo giudizio su di me: «Sempre il più bravo di tutti. Bravissimo. Troppo bravo. Ma mettendo lo stesso impegno a scrivere gli articoli su Venezia e quello sull’arbitro Lo Bello, dimostra che in realtà non è impegnato in nulla». vero. Non sono impegnato in nulla. In nulla, meno che nel mio mestiere. Fiorentina-Bari 3-0. E Chiarugi capo-cannoniere!

Milano, 19 novembre 1969
Sciopero generale per il caro- case. Un pretesto da nulla. Ma è bastato per immergere Milano in un’atmosfera da 8 settembre. Strade vuote. Saracinesche abbassate. Enorme spiegamento di polizia. Mentre pranzo con Spadolini, Cervi e Zappulli, giunge notizia che in un tafferuglio al Lirico un agente è stato ucciso dai «cinesi». «Meno male che è toccata a un agente» diciamo in coro, eppoi non osiamo guardarci negli occhi. Anche noi apparteniamo a questa borghesia codarda che pretende appaltare alle forze dell’ordine il compito di farsi sputacchiare, pestare e ammazzare per tenerne al riparo se stessa. E non vuole nemmeno pagargli uno stipendio decente.

Milano, 20 novembre 1969
Cervi e Zappulli mi portano una notizia gravissima. Su ordine di Spadolini, ieri sera Cervi aveva scritto un breve commento, ma energico e vibrato, sull’assassinio di ieri. Spadolini lo ha modificato attenuandolo «perché» ha detto, «la commissione interna ha fatto capire chiaramente che, se il giornale non avesse rispettato la versione dei fatti fornita dai sindacati, ne avrebbe impedito la pubblicazione». Spadolini è partito stamani per Roma. Aspetterò il suo ritorno per sapere da lui quanto c’è di vero e cosa intende fare. Capisco l’imbarazzo in cui si trova, avendo alle spalle una proprietà disposta a tutto pur di evitare «grane», e una redazione in cui c’è parecchia gente pronta anche a subire una censura che oltre tutto le consentirebbe di fare con lo zelo e il servilismo quella carriera che non è riuscita a fare col talento che non ha. Ma io, che non ho responsabilità direttoriali e devo decidere solo di quelle mie, non ci sto. Se le cose stanno come me le riferiscono, se veramente si profila la minaccia di un sindacato partigiano sulla mia attività di giornalista, solleciterò a Spadolini un incontro con la proprietà e le chiederò se intende o no resistere sul principio della assoluta insindacabilità del giornale, cioè della libertà di stampa, anche a costo di subire scioperi e violenze. Se il loro «sì» non è esplicito e fermo, me ne vado e li denunzio alla pubblica opinione.

Milano, 25 novembre 1969
Solo ora mi mostrano l’articolo che Bocca mi ha dedicato sul Giorno. Gli avevo mandato la mia Italia del Seicento con una dedica affettuosa in cui lo chiamavo «ami-nemico». Lui ne informa i lettori, ma mi risponde da nemico dichiarato, con una stroncatura sgarbata. Non vorrei cadere in peccato di presunzione. Ma credo che sia stato per differenziarsi da me, per non diventare una mia copia, che si è costruito un personaggio antitetico al mio: eternamente impegnato, intransigente, accigliato, e costretto a una perpetua polemica con tutto ciò che io rappresento. Ma anche lui ne capisce l’artificiosità ed evita il contatto con me perché teme che lo costringa a prenderne atto. Se potesse, mi sopprimerebbe. Eppure, sono io a sentirmi colpevole verso di lui che, senza di me, sarebbe diventato un grande, un grandissimo giornalista, e non soltanto un inquisitore, molto spesso sbagliato.

Roma, 28 dicembre 1969
Moravia ha fondato, insieme a Pasolini e a Dacia Maraini, un «comitato contro la repressione». la riprova che la repressione non c’è. Se ci fosse, Moravia sarebbe coi repressori, come ha dimostrato avallando col suo silenzio la persecuzione di Solzhenitsyn in Russia.

Roma, 2 gennaio 1970
Moravia si è ritirato dal comitato che lui stesso aveva fondato. Ma non per i silenzi di Spadolini. Si è ritirato perché l’Unità ha disapprovato. Gl’italiani sono sempre pronti a fare la rivoluzione, purché i carabinieri siano d’accordo. E Moravia è sempre pronto a battersi per la libertà purché sia d’accordo il piccì.

28 gennaio 1972
Buzzati si è spento, oggi, alle 16.30. In questi ultimi giorni si era incarnato nella Morte, come la immaginava e tante volte l’ha disegnata e dipinta. Non avevo mai vista una Morte più Morte di quella. Fino a ieri sera era lucidissimo. Ha voluto che gli dessi le ultime notizie sul processo. Ogni tanto, stanco, chiudeva gli occhi, e io mi chetavo. Ma poi li riapriva, e mi chiedeva di riprendere il racconto. Non voleva pensare. Stamani, quando son tornato alle dieci, non mi ha riconosciuto. Afeltra non ce l’ha fatta a restargli accanto sino in fondo: girava per il corridoio, anche lui senza riconoscere nessuno. Io, non so per quale motivo - il fascino dell’orrore, credo, contagiatomi da lui - sono rimasto ai piedi del suo letto, e l’ho visto spengersi come una candela. Poi sono fuggito. Ha lasciato un testamento di dieci righe. In fondo c’era scritto: «Niente partecipazioni. Cremazione». Ora devo dimenticarmi di lui, scacciarlo dal pensiero e dagli occhi. Ma come, come?

Milano, 9 marzo 1972
Pranzo di addio di Spadolini a tutta la redazione, al Principe di Savoia. C’è voluta, mi dicono, l’autorità di Palumbo e Di Bella per condurvi i colleghi che non volevano andarci. Quando Spadolini entra a braccio di Montale, mi scappa detto: «Ecco il senatore a vita col senatore a morte». Nel discorso di chiusura, l’anfitrione eleva a se stesso due monumenti: uno come direttore uscente, l’altro come parlamentare entrante.

Roma, 10 aprile 1972
Clerici, Sciascia e Laurenzi a cena da me. Immoto e inespressivo, Sciascia parla alla velocità di una parola all’ora, e bisogna sollecitarlo con sguardi interrogativi e lasciargli un ampio spazio di silenzio per indurlo a pronunciarla. Laurenzi mi trae in disparte per manifestarmi il suo sgomento che tocca punte patologiche. Mi supplica di non trasferirmi alla Stampa lasciando lui e gli altri nelle peste. Glielo prometto, con la ferma intenzione di mantenere. «Vado a Milano» gli ho detto, «per mettere le carte in tavola e costringere Ottone a fare altrettanto. Se mi accorgo che si può raddrizzare la barca, cercheremo di farlo. Se vedo che è impossibile, tratterò con Afeltra per un trasloco di tutto il nostro gruppo (io, te, Bettiza, Pieroni, Sensini, Melani, forse Corradi, Spinosa eccetera) al Giorno e, se non va, cercherò di persuadere Rizzoli a trasformare in quotidiano il Mondo per occupare il vuoto che il Corriere sta lasciando ».

Lussemburgo, 23 maggio 1977
Volo a Lussemburgo sul solito bireattore di Berlusconi, che ci accompagna, felice di esibirsi e di esibire il suo status in una cerimonia internazionale. La medaglia d’oro (ma è proprio d’oro?) me la consegna Gaston Thorn, capo del governo lussemburghese e presidente del movimento europeo. Bettiza, che mi ha procurato il premio e nella sua qualità di parlamentare europeo mi fa da padrino, cerca di attribuire alla cosa molta solennità. In realtà mi sembra un evento piuttosto modesto. (...) Berlusconi riempie il suo taccuino d’indirizzi: quelli di tutte le personalità che ha incontrato. il vero climber che approfitta di tutto e non butta via nulla.

Milano, 2 giugno 1977
 la festa della Repubblica. Io la celebro ricevendo nelle gambe quattro pallottole di rivoltella, calibro 9. Me le sparano alle 10.10, appena uscito dall’albergo Manin, alle spalle. Faccio a tempo, voltandomi, a vedere uno dei due killer che seguita a sparare da una distanza di 4-5 metri. Ma sono talmente sorpreso e frastornato che non riesco a fissarne nella memoria il volto. Aggrappandomi all’inferriata dei giardini pubblici, penso: «Devo morire in piedi!». Questo pensiero stupido, retaggio sicuramente del Ventennio, è forse quello che mi salva: cadendo, avrei probabilmente preso l’ultima scarica nell’addome. Solo quando il killer ha finito, cedo al languore che m’invade e scivolo a terra. Potrei comodamente uccidere con la mia pistola l’uomo che ora mi volta le spalle per fuggire. Ma ce n’è un altro che lo protegge con l’arma in pugno. Mi limito a gridargli: «Vigliacchi!». Un cane lupo, dall’altra parte dell’inferriata, sporge la lingua fra le sbarre e si mette a leccarmi la faccia. La donna, che lo tiene a guinzaglio, è terrea. Le sorrido, e dico: «Non si spaventi!». Ho subito la sensazione che nessuna parte vitale è lesa. Intorno a me, coperto di sangue, è subito gran confusione. Tra i primi soccorritori riconosco i nostri autisti Mele e Colonna, e Paolino Longanesi. Erano alla finestra, e hanno visto, ma non avevano capito che la vittima ero io. Trovo la forza di dirgli in modo che tutti sentano: «Coraggio, ce la farò anche stavolta». Poi tutto diventa spettacolo.

Milano, 3 giugno 1977
Anche l’Unità esce con un titolo a sette colonne in cui campeggia il mio nome. Lo stesso fa Repubblica, ma con un articolo di Scalfari ancora più infelice di quello che scrisse dopo Bontà loro per chiedere la mia esclusione dalla tv nazionale. Sostiene la strana tesi che l’attentato è stato organizzato contro i nemici di Montanelli, cioè contro di lui, insinuando così il sospetto che me lo sia organizzato da me. Il mio successo lo riempie di un furore che lo fa sragionare. Ma la cappella più grossa la fa il Corriere che titola su cinque colonne sul centro pagina: «Attentati contro giornalisti », mettendo il mio nome solo nel sommario. Biazzi ha il sangue agli occhi. Bettiza mi chiede di rispondere, nell’editoriale di domani, sia a Scalfari che a Ottone. Glielo concedo, ma a patto che mi mostri prima il testo: durezza sì, meschinerie no.

Milano, 4 giugno 1977
Le ferite vanno bene anche perché non ho il tempo di pensarci: è tutto un viavai di amici, nemici, conoscenti, sconosciuti: mi sembra di essere la Madonna di Loreto. Viene anche la televisione, e io mi lascio intervistare minimizzando l’accaduto (mi dicono che Cervi, che lo ha commentato l’altro ieri sera da Montecarlo, ha commosso tutti con la propria commozione). Mi telefona Andreotti, poi Cossiga, poi Forlani, poi Gianni Agnelli. A tutti rispondo scherzando, che non mi prendano per un piagnone. Dal giornale mi mandano tre sacchi di telegrammi: ne hanno contati quindicimila. Ma la notizia che in fondo mi fa più piacere è che in due salotti milanesi - quello di Inge Feltrinelli e quello di Gae Aulenti - si è brindato all’attentato contro di me e deplorato solo il fatto che me la sia cavata. Ciò dimostra che, anche se non sempre scelgo bene i miei amici, scelgo benissimo i miei nemici.

Milano, 6 ottobre 1977
Granzotto mi racconta com’è venuta fuori la mia candidatura alla direzione del Corriere. stato Ottone che, invitato da Rizzoli a designare il suo successore, ha detto: «Non c’è che Montanelli. Guardate cosa ha fatto con niente». Curioso tipo. Come non ama, così non odia nessuno.

Milano, 16 novembre 1977
Quattro revolverate in faccia a Casalegno, che ora è grave. Alzano la mira.

Milano, 18 novembre 1977
La Stampa riporta tutti gli articoli di solidarietà per Casalegno apparsi sugli altri giornali. Ma omette il mio, ch’era forse il più caldo: la solidarietà nostra la imbarazza.

Milano, 29 novembre 1977
Casalegno è morto. Ho telegrafato alla vedova, ma non al figlio - iscritto a Lotta continua -, né a Levi e ai colleghi della Stampa. Purtroppo, la loro faziosità condiziona la nostra solidarietà. Al funerale andrà Biazzi.

9 maggio 1978
Il cadavere di Moro, lasciato su una macchina fra Botteghe Oscure e piazza del Gesù, ci coglie di sorpresa. Siamo stati duri nei suoi confronti. La sua fine miseranda c’ispira un sentimento di pietà, ma fa sorgere altri pericoli contro cui occorre subito mettere in guardia: in nome del «martire», i suoi cercheranno di spingere avanti la sua «linea». (...) Ho avuto a Torino una franca spiegazione con Gianni e Umberto Agnelli. Per la prima volta Gianni ha parlato e mi ha lasciato parlare per un’ora dello stesso argomento, senza annoiarsi com’è solito. Ma vuole la rottura della Dc, mentre Umberto ne vuole la conquista. Romiti mi assicura che accetterà la proposta di Venini per il Giornale. Si comincia a respirare.