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 2009  aprile 04 Sabato calendario

APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 6 APRILE 2009

Il tempo delle cautele e della prudenza che evitano «inutili allarmismi» è finito. La settimana scorsa l’Ocse non ha esitato a definire l’attuale crisi economica come la «più grave che abbiamo visto nella nostra vita», il presidente dell’Eurogruppo Jean-Claude Juncker ha avvisato che «la disoccupazione aumenterà a livelli drammatici, causerà la rottura della coesione sociale». [1] Carlo Trigilia: «L’onda lunga della crisi è già arrivata dalla finanza alle imprese e ora comincia a investire la società, con i suoi contraccolpi sull’occupazione. Se è difficile prevedere l’andamento della crisi economica, ancor più problematico è però valutare le conseguenze sui conflitti sociali. Siamo alla vigilia di una grande esplosione di nuovi conflitti, come ipotizza l’Economist Intelligence Unit?». [2]

L’ultimo numero del settimanale inglese The Economist dedica 14 pagine ai ricchi «sotto attacco» per l’incapacità e l’avidità che hanno portato alla crisi. [3] Domenico Quirico: «Il clima sociale ha ormai temperature da altoforno. Siamo alla caccia al ricco, al ”pescecane” che sfrutta la crisi, ci sguazza, si riempie le tasche licenziando in nome di questo Moloch i cui bestiali appetiti si chiamano tagli, economie, razionalizzazioni, concorrenza». [4] L’economista Jean-Paul Fitoussi: «La chiamano in vari modi, ma le dico io cos’è. una rivolta. Questa è una rivolta popolare non coordinata, spontanea. E molto pericolosa». [5] Oltralpe la situazione è particolarmente delicata: secondo un recente sondaggio, il 64% dei francesi ritiene che il Paese sia sull’orlo di una ribellione sociale. [4]

In Francia lo scandalo che suscitano di questi tempi le notizie di liquidazioni d’oro e stock options milionarie a confronto con licenziamenti massicci e chiusure di imprese ha esasperato gli animi. Jean-Michel Denis, ricercatore al Centro studi sull’Occupazione: «Sono sempre più numerosi i lavoratori che pensano che la crisi non pesi sulle spalle di tutti». Francesca Pierantozzi: «Ad esasperare la gente sono state le rivelazioni sugli stipendi d’oro di alcuni grandi patron nazionali, il dibattito sullo ”scudo fiscale” che ha regalato 458 milioni di euro di sconti sulle tasse ai 14mila contribuenti più ricchi, senza contare le aziende che licenziano nonostante i benefici da record e gli ampi dividendi versati agli azionisti». [6]

Voi manager ci licenziate e noi vi sequestriamo: ormai in Francia i casi di lotte esasperate dei lavoratori si stanno moltiplicando e diventano sempre più clamorosi. Gianni Marsilli: «Il primo malcapitato era stato il direttore industriale di Continental (pneumatici), che mentre spiegava all’assemblea dei lavoratori il piano di licenziamenti era diventato il bersaglio di un nutrito lancio di uova. Aveva battuto in ritirata, chiazzato di tuorli maleodoranti e inseguito da un coro d’insulti. Poi era stata la volta degli operai della Fulmen di Auxerre, che fabbrica batterie per automobili e camion. Il 29 gennaio era giornata di sciopero generale nazionale. Hanno preso il signor direttore e l’hanno obbligato a indossare una maglietta con il numero 82, che non corrisponde ad un calciatore ma alla quantità di licenziamenti previsti. ”E adesso sfili con noi”, gli hanno intimato, portandolo in piazza come una preda ingabbiata». [7]

 toccato poi al presidente della Sony France Serge Foucher, rinchiuso in una stanza per tutta una notte a Pontonx-sur-l’Adour, dove dall’84 si fabbricavano bande magnetiche e dal prossimo 17 aprile più niente, tutti a casa: i lavoratori erano fuori dalla grazia di dio perché le indennità previste erano inferiori a quelle ottenute dai loro colleghi alsaziani solo un anno fa. Quindi è stato il turno del direttore dell’industria 3M a Pithiviers (eccellenti risultati finanziari ma 110 licenziamenti) e di quattro dirigenti della Caterpillar di Grenoble (733 posti di lavoro da sopprimere sui 2500 che la fabbrica conta nella zona). [7] Quirico: «Ormai sta diventando una (pericolosa) abitudine sindacale: il sequestro del manager come rappresaglia. Non si fanno tante distinzioni: quadro medio o uno di quelli che si portano a casa le stock-options da tre milioni di euro, tutti nello stesso mazzo li mettono, questi infervorati. E li chiamano ”patron voyous”, come i teppisti di banlieue». [4]

Una delle novità di questa crisi è che i padroni non si «vedono» più (unica eccezione il sequestro di François-Henri Pinault, erede di un impero di lusso e moda, bloccato nel suo taxi dai dipendenti inferociti per oltre ottocento licenziamenti). [8] Valentino Parlato: «Sembra di esser tornati alla civiltà contadina, quando i baroni proprietari stavano nei bei palazzi di città (quasi tutti gli agrari pugliesi abitavano a Napoli) e in campagna c’erano solo i fattori contro i quali si scatenava l’ira di braccianti e contadini. Questo fenomeno di oscuramento dei proprietari è cominciato da tempo: le Spa (società anonime) furono già un bell’esperimento di dissimulazione della proprietà, che continuava a sfruttare nascondendo il volto. Ma, forse, in questo nascondersi c’è anche un indebolimento del diritto di proprietà e vale ricordare che nelle campagne la proprietà assenteista apre le porte alla riforma agraria. un dato di fatto che i manager, come i fattori di un tempo, con le stock option e altro hanno ridotto i guadagni del proprietario, che pur di rimaner nascosto accettava di pagare il tributo». [9]

La crisi proviene da una grande menzogna. Fitoussi: «Ci dicevano che nuovi posti di lavoro si potevano creare soltanto in relazione alla loro produttività marginale. I lavoratori dovevano insomma essere pagati in proporzione al loro apporto produttivo. Eppure scopriamo oggi che, in realtà, la classe dirigente di molte imprese non veniva pagata con questa regola. Anzi, è stato esattamente il contrario: la maggior parte dei dirigenti del sistema finanziario ha avuto una produttività negativa, continuando però a incassare remunerazioni astronomiche». [5] L’economista Marco Vitale: «I guadagni di questa gente non avevano più alcun rapporto con la realtà delle cose e con i risultati del loro lavoro. Erano prelievi feudali di una intera classe dirigente protagonista di performance a dir poco pessime. Quello che è accaduto non è stato provocato da una guerra o da uno tsunami. Semplicemente, hanno sbagliato loro». [10]

I dipendenti che hanno scelto la strategia del sequestro hanno visto in numerosi casi le direzioni farsi da implacabili e incrollabili improvvisamente pronte all’arretramento. Quirico: «Non è una buona constatazione per l’ordine pubblico. Senza trascurare il fatto che polizia e magistratura sembrano aver improvvisamente cancellato dal codice penale tutte le voci che riguardano sequestro violenza privata e altri codicilli non certo secondari. E che prima dell’esplodere della emergenza crisi erano sempre a portata di mano per esempio per calmare gli studenti ribelli. Ci sarebbe da aprire un complicato dibattito politico, ma nessuno neppure la gauche ha interesse a spalancarlo». [11] Dominique Manotti (ex sindacalista, storica, scrittrice) spiega che i sequestri dei manager sono (quasi) la normalità, nei momenti più difficili, per un paese nel quale - nel settore privato - il sindacato è «estremamente debole, e gli imprenditori detestano negoziare». [12]

«Venerdì alle ore 9 le Brigate rosse hanno arrestato di fronte allo stabilimento della Sit Siemens il dirigente Idalgo Macchiarini. Dopo averlo processato, lo abbiamo consigliato a lasciare al più presto la fabbrica e quindi rilasciato in libertà provvisoria...». Francesco Riccardi: «Iniziava così, il 3 marzo 1972, il comunicato di rivendicazione del primo sequestro di un dirigente industriale ad opera delle nascenti Br. Fu l’inizio di una tragica escalation che dal rapimento-lampo passò alla gambizzazione fino all’assassinio dei responsabili del personale prima, di magistrati, politici e giornalisti poi. A leggere le notizie dalla Francia sui sequestri di dirigenti industriali, corre qualche brivido nella schiena di chi in Italia conserva memoria di questo recente passato». [13]

Secondo Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione comunista, unico leader politico italiano a manifestare la settimana scorsa contro il G20 per le strade londinesi, «l’ondata di ribellismo arriverà anche l’Italia». [14] Le prime avvisaglie si sarebbero avute la settimana scorsa alla periferia Nord di Milano, dove i lavoratori della Omnia Service (società quotata in Borsa, fornisce il servizio di call center e non solo a grandi gruppi come 3, Wind, Tiscali, Sea) infuriati per il mancato pagamento degli stipendi di febbraio hanno bloccato il direttore generale Fernando Ruzza: «C’è un rischio di emulazione altissimo. La tensione sociale è altissima. C’è il rischio di un effetto valanga. Ma lo sa che sui blog hanno scritto: ”Lo abbiamo sequestrato, ci hanno pagato gli stipendi...”. Invece i nuovi azionisti hanno messo 8 milioni di euro a garanzia delle banche e la situazione si è sbloccata». [15]

In Italia il ribellismo difficilmente si presenterà con il sequestro del manager di turno, ma può prender la forma ben più insidiosa del terrorismo. Lo storico Biagio De Giovanni: «Per ragioni che nascono dall’essere quel filone, sulla scia di un brigatismo mai del tutto battuto, nascostamente ancora presente nella società, ancora capace di qualche aggregazione». [16] Riccardi: «La crisi economica, coi suoi pesanti costi sociali, potrebbe costituire – Dio non voglia – per qualcuno il terreno ideale, l’humus per far rispuntare la malapianta della lotta armata. Mai del tutto seccatasi nel nostro Paese, come dimostrano sia gli omicidi di Massimo D’Antona e Marco Biagi, sia le ancora più recenti minacce al giuslavorista Pietro Ichino». [13] Il sociologo Arnaldo Bagnasco: «Da noi finora c’è stata tenuta sociale perché siamo capaci di galleggiare, ci sono ammortizzatori che hanno funzionato, compresa la famiglia. Per ora hanno retto, vedremo nei prossimi mesi». [17]

Fino a cinque o sei anni fa il 60 per cento degli italiani si sentiva ceto medio, oggi risponde «mi sento di ceto medio» solo il 50 per cento. Bagnasco: «In generale è cresciuta una élite che concentra una quota di reddito nazionale, questo è successo un po’ dappertutto in occidente». [17] Nel 1979 lo 0,1% degli americani più ricchi guadagnava 20 volte di più del 99% più povero, nel 2006, prima della crisi odierna, guadagnava 77 volte di più. [3] Il leggendario banchiere John Pierpont Morgan sosteneva all’inizio del secolo scorso che in nessun caso il reddito del presidente di una società doveva superare quello medio dei suoi dipendenti moltiplicato per venti. Marcello Zacché: «Se lo stipendio medio di un impiegato è nell’ordine dei 25mila euro annui, secondo JP Morgan il supermanager dovrebbe stare dalle parti dei 500mila. E che si arrivi pure al milione, dollari o euro non fa differenza, come piacerebbe al signor Bonaventura. Ma senza più perdere il senso, prezioso, della misura». [18]