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 2009  aprile 04 Sabato calendario

”Sui conti off-shore 11 mila 500 miliardi”. Era un pomeriggio caldo e senza un alito di vento dell’agosto 1995 e l’atmosfera nel mio ufficio di Saint Helier, Jersey, era soffocante

”Sui conti off-shore 11 mila 500 miliardi”. Era un pomeriggio caldo e senza un alito di vento dell’agosto 1995 e l’atmosfera nel mio ufficio di Saint Helier, Jersey, era soffocante. Ero consigliere economico in questo paradiso fiscale delle Channel Island, uno dei tanti satelliti offshore della City di Londra. Davanti a me sedevano un multimilionario con la moglie e i loro sei consiglieri finanziari e legali. Gli chiesi come mai non aveva pagato un penny di tasse sul reddito in cinque anni. Si difese così: i miei amici milionari non pagano le tasse e i miei consulenti mi hanno detto che non occorre, perché avrei dovuto? Avrebbe potuto essere il manifesto dei facoltosi di tutto il mondo: siamo ricchi, noi, siamo diversi, le tasse sono per i poveretti. In seguito, per curiosità, verificai la sua affermazione sui ricconi del Jersey ed era in gran parte vera. La maggior parte, in effetti, pagava tasse sorprendentemente basse e, in almeno la metà dei casi, nulla del tutto. I più ricchi del pianeta si sono isolati dal resto della società e si sono creati un impero economico offshore dove possono sentirsi liberi da ogni regola e da ogni obbligo, lasciando a noi i conti da pagare. Questo era l’universo parallelo e segreto che avevo iniziato a indagare negli Anni ”80: vivere nel Jersey mi garantiva una copertura perfetta. Alcune cifre possono aiutare a capire l’estensione del marciume. Dalla deregulation dei mercati finanziari, negli Anni ”70, il numero dei paradisi fiscali è più che triplicato. Oltre 600 miliardi di dollari sono confluiti dall’Africa subsahariana in massicci trasferimenti di capitale fin dal 1975 e per lo più sono scomparsi, finiti in conti segreti o in compagnie offshore in posti come Jersey, Lussemburgo, Svizzera e Londra. La portata di questo scandalo è sconvolgente. Secondo stime prudenti gli individui più ricchi del mondo hanno parcheggiato 11 mila 500 miliardi di dollari offshore, con una perdita secca di 250 miliardi da versare in tasse ogni anno. più della cifra richiesta dall’Onu per il Millenium project per combattere la povertà globale. Ma è solo parte del quadro: l’evasione fiscale delle corporazioni è ancora maggiore. Secondo la Banca Mondiale i flussi di capitale frutto di attività criminali, corruzione ed evasione che passano i confini vanno da 1.000 a 1.600 miliardi di dollari all’anno. La metà proviene dalle economie dei Paesi sviluppati. I Paesi ricchi spendono correntemente circa 100 miliardi di dollari all’anno in aiuti: per ogni dollaro che va in soccorsi, da 5 a 8 svaniscono nel nulla. L’evasione fiscale in questo quadro rappresenta la parte maggiore: le imposte sul commercio in particolare sono la parte più rilevante con un ammontare tra i 700 e 1.000 miliardi di dollari. Storicamente non c’è mai stato un tale divario tra ricchi e poveri. Perché è stato permesso tutto questo? I paradisi fiscali sono il cuore dei mercati finanziari globali con oltre 2.000 miliardi di dollari che ogni giorno passano per i loro circuiti. E tuttavia il loro ruolo nel minare ogni regola e nel distruggere l’integrità del sistema tributario nazionale non è ancora stato compreso. I tentativi di affrontare il problema sono stati pietosi e hanno incontrato una forte resistenza. Avvocati, contabili e banchieri che lavorano per i super ricchi hanno collaborato a realizzare nuove strutture legali e finanziarie e contano su governi forti per fissare regole e contesti. Intanto le nazioni più influenti, in particolare Gran Bretagna e Stati Uniti hanno ostacolato le riforme mentre la società civile rifugge l’argomento spaventata dalla sua complessità. Londra è diventata il principale centro finanziario offshore. Negli Anni ”50 durante il periodo postcoloniale, l’Inghilterra trainava sviluppo e investimenti e la City ristagnava. La decolonizzazione permise all’Inghilterra di creare una rete di stati semiautonomi per dirigere flussi di capitali verso Londra. Quasi la metà dei paradisi fiscali del mondo, incluse le isole Cayman, le isole del Canale, le British Virgin Islands e le Bermuda hanno stretti legami con la Gran Bretagna e ospitano i maggiori centri finanziari offshore gestiti da professionisti della City espatriati. Ma la Gran Bretagna sostiene di non essere un paradiso fiscale. La Gran Bretagna non è la sola, certo. Tutti sappiamo del segreto bancario svizzero, per esempio, o delle consorterie criminali in Liechtenstein. Singapore attrae denaro sporco dall’Asia e dall’Europa. Il sistema fiscale statunitense permette alle persone facoltose, soprattutto i latinoamericani, di mantenere segreta la loro identità quando investono in buoni del tesoro Usa. E con il crescere dei Paesi in lizza è nata una vera gara nell’offrire incentivi a questo genere di investimenti. Garanzia del segreto e leggi deboli sono la maggiore attrattiva. Nel 1990 l’Ocse tentò di denunciare lo scandalo con il suo rapporto sulle «tasse dannose» ma l’iniziativa fu neutralizzata dall’amministrazione Bush. Le compagnie di potere e i super ricchi, supportati da una capillare struttura di intermediari finanziari hanno sfruttato questa gara a toccare il fondo. Nemmeno le nazioni più potenti riescono a resistere alle pressioni. «Tagliateci le tasse, o ci trasferiremo in Irlanda, o in Svizzera», dicono le aziende. «Offriteci un trattamento di favore, o ce ne andiamo». I governi tremano a queste minacce, e cedono. I risultati sono disastrosi. La mancanza di regole nei paradisi fiscali è stata una delle cause, la maggiore, della crisi attuale: non è un caso se molti dei veicoli di investimento strutturati e dei fondi obbligazionari sono nati in posti come Jersey e Grand Cayman. Così, il carico fiscale è passato da chi poteva sopportarlo a lavoratori e consumatori. Producendo meno posti di lavoro, incremento della povertà e una maggiore ineguaglianza sociale. Questa è una maledizione per i Paesi poveri, ma non solo per loro: l’ex segretario al Tesoro americano Larry Summers ha osservato che se la distribuzione dei redditi negli Usa fosse la stessa del 1979, oggi l’80% degli americani più poveri avrebbe 670 miliardi di dollari in più, 8.000 dollari a famiglia mentre i più ricchi ne avrebbero 670 in meno, circa 500.000 dollari a famiglia. Gli economisti e la cooperazione hanno a lungo ignorato questa economia «sommersa». Molti economisti ortodossi non vedono nemmeno nella politica offshore un fenomeno politico o economico. La Banca Mondiale e il Fmi non hanno incluso nelle loro analisi il modo in cui i paradisi fiscali destabilizzano i mercati finanziari, permettendo che i rischi siano nascosti in complesse strutture occulte nè hanno studiato il loro ruolo nel creare divario sociale e povertà. O come incoraggino la criminalità offrendo ospitalità a evasori, imbroglioni e trafficanti, diventando di fatto fiancheggiatori della corruzione che ha stroncato tanti Paesi. Per 50 anni il cancro dei paradisi fiscali ha diffuso le sue metastasi attraverso l’economia mondiale, provocando scompensi e minando la democrazia. Troncare questa crescita maligna deve diventare una priorità globale. Per fortuna vediamo i segni di un cambiamento in questo senso. Obama già da candidato aveva proposto lo Stop Tax Haven Abuse Act, segno che anche gli americani ne hanno abbastanza. Il Tax Justice Network sta dando l’allarme e le associazioni non governative si stanno unendo alla protesta. Tornando a Jersey, vedo radunarsi nubi minacciose. I giovani isolani non possono permettersi l’alto costo della vita ed emigrano. Il tasso di povertà è strabiliante per un’economia che ha il più alto reddito pro capite del mondo. L’economia dell’isola ora dipende dal suo status di paradiso fiscale e le contromisure causeranno danni anche maggiori. Gli abitanti, ora consapevoli del ruolo della loro isola nell’impoverire il mondo, cominciano a vergognarsi. Copyright: New Internationalist