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 2009  aprile 09 Giovedì calendario

MICHELE SERRA PER L’ESPRESSO 9 APRILE 2009

Il Gigante e la Formica Il grande Ibrahimovic e il piccolo Giovinco. Due fuoriclasse agli antipodi. Che dimostrano come il calcio sia lo sport più ecumenico. E forse per questo il più amato
La storia sarebbe: il nano e il gigante. Cioè Sebastian Giovinco, un metro e 64 per 59 chili, trequartista, Juventus, soprannome Formica Atomica. E Zlatan Ibrahimovic, uno e 92 per 84 chili, 46 di scarpa, attaccante, Inter, soprannome Ibracadabra. Due stazze opposte del talento calcistico. Una pallottola vagante e un cacciabombardiere. Un go-kart e una Formula Indy, cilindrate incomparabili, ma con la stessa capacità di mandare a vuoto i difensori avversari, uno perché riesce a curvare in mezzo metro senza perdere velocità (ha il baricentro rasoterra), l’altro perché è così potente e bene equilibrato che sul suo asse riesce a far ruotare la difesa avversaria al completo: Giovinco sposta la palla, Ibra sposta il campo intero.
Storia divertente. Ma sarebbe già finita qui, nel gioco dei contrasti, nella bordata di metafore micro-macro che l’accoppiata suggerisce. Non fosse per la riflessione (ennesima) che costringe a fare sullo sport che li contiene entrambi, il calcio. Il meno specializzato, il più ecumenico, il più giocato, il più visto, il più parlato del pianeta, il più popolare ma anche il più colto (letteratura a fiumi, ivi comprese pagine memorabili di giornalismo sportivo). E proprio per questo: perché il calcio va da Giovinco a Ibra, ospita i brevilinei e le torri, gli istintivi e i calcolatori, i veloci e i robusti, e a differenza di quasi tutti gli altri sport non crea una tipologia inconfondibile del giocatore, e al contrario assorbe e promuove le infinite tipologie degli atleti (e perfino le tipologie non atletiche, vedi Mariolino Corso). Il calcio dà spazio a tutti, nello stesso campo e con le stesse regole. Come fosse il poker o il bridge.
Forse solo il ciclismo è altrettanto democratico, fisiologicamente parlando. Gli scalatori possono essere brevilinei e leggeri, i passisti e gli sprinter più massicci, ma si tratta in genere di specializzazioni piuttosto costrittive, difficile che i ruoli possano essere mescolati e men che meno invertiti, il Tour dello sprinter e quello del grimpeur non sono la stessa gara, non sono la stessa corsa. Coabitano ma non convivono.
Di altri sport è paradigmatica la selezione su basi morfologiche dei protagonisti. I giganti del basket. I rugbisti poderosi e quadrati. I nuotatori filanti. I pugili, i lottatori, i sollevatori pesati al grammo e suddivisi in categorie che rappresentano, rigorosamente separate, tutte le possibili quantità del corpo umano. In atletica leggera, i velocisti potenti, i mezzofondisti quasi ridotti all’osso, i saltatori longilinei, i lanciatori inquartati e al limite dell’obesità, un pesista e un maratoneta fanno parte della stessa federazione ma non mangiano, non camminano, non pensano nello stesso modo.
Il calcio, invece, è una specie di villaggio olimpico riassunto in un rettangolo e in 90 minuti, c’è il bestione e il frillo (brerismo), il grintoso e l’abatino (ri-brerismo), lo scattista e il fondista, il corto e il lungo, il fisico e l’intellettuale, il peso massimo e il mosca, il nervoso e il polmonare, eccetera. Ed è soprattutto su questa straordinaria varietà di anatomie, di relative psicologie, insomma di storie, che la letteratura sportiva si è esercitata quasi nella certezza che una disciplina così poco escludente mettesse a disposizione del pubblico, anche del pubblico non propriamente appassionato, una rappresentazione dell’umano così elastica e varia da potere interessare tutti o quasi. Anche quei popoli e quegli spicchi di pianeta presso i quali la prestanza fisica da benessere, da college americano, da alimentazione ben temperata, non è così familiare e anzi è vista con comprensibile ostilità. E nei calciatori, popolo multiforme e non sempre conforme, possono specchiarsi più facilmente: non c’è mingherlino o affamato o svantaggiato, sul pianeta Terra, che non possa identificarsi in un campione del calcio.
Più che proverbiale, e così ben congegnata da sembrare inventata apposta, fu la storia della zoppia del carioca Garrincha, che la poliomielite aveva lasciato con una gamba più corta e più incerta, e in virtù di questa menomazione, e della corsa velocissima, poteva nascondere la palla all’avversario, prima che la bottiglia arrivasse a nasconderla a lui. Caso estremo, quasi un anticipo edificante del politically correct, ma ancora poco in confronto al numero esorbitante di fisicamente non dotati che nel calcio riescono a sfondare, ultimo l’argentino Messi che cominciò a giocare per combattere il rachitismo. Né la struttura cubica di Maradona, che ebbi l’opportunità di esaminare da vicino durante i Mondiali dell’86 in Messico, faceva pensare a una qualche eccellenza atletica. Un normolineo tendente ad allargarsi, con gambe tozze, testa incassata, questo era, anche quando in piena forma, il giocatore di calcio più forte di tutti i tempi, con buona pace di Pelé.
Piccoletti formidabili, prima di Giovinco, ce ne sono stati parecchi, forse Zola il più amato dagli italiani, lo scozzese Johnston che sembrava poter passare sotto le gambe dei cristoni che cercavano di intercettarlo, il portoghese Rui Barros che nella Juve, in combutta con Schillaci e Zavarov, formava uno degli attacchi più brevilinei di sempre, il vicentino Filippi che pareva ancora più basso perché portava i capelli lunghi sulle spalle, il fantastico francese Giresse che percorreva ogni partita la distanza tra la Terra e la Luna. Tanto che si potrebbe comodamente stilare un dream team di tutti i tempi (escluso il portiere, magari) sotto il metro e 70, magari con l’aiuto di Gianni Mura che ha più memoria dell’archivio Panini.
Meno frequente, venendo a Ibra, è il caso di altissimi che riescono a ovviare alla macchinosità e alla lentezza, con ottima padronanza del pallone, e altrettanta velocità. Le pertiche, nel calcio, sono più frequentemente apprezzate per la prestanza fisica e il colpo di testa facilitato. Meno comuni i fuoriclasse, i giocolieri, i genialoidi sopra il metro e 90, come se il pallone, che per la maggior parte del tempo corre a filo d’erba, fosse troppo lontano dal loro cervello. Ma Van Basten, per esempio, muoveva le gambe lunghissime con inspiegabile precisione, non aveva l’approssimazione di movimento di molti slungagnoni; John Charles non era poi così alto ma era diventato ’il gigante buono’ in opposizione al suo compare Omar Sivori, che non era poi così basso; e qualcuno ricorda i quasi due metri dello svedese Kennet Andersson come una specie di palo della cuccagna per qualsiasi attacco che lo schierasse. E il centravanti del Benefica Torres, ondeggiante ma precisissimo. E Luca Toni, bello a vedersi e armonico nella corsa, seppure infiacchito nella fama dal deludente Mondiale di Germania.
Ibra è dunque un poco più eccezionale di Giovinco, i bravi e alti sono, nel calcio, una genia meno comune di quella dei bravi e bassi. Hanno leveraggi più ingombranti e complicati, e a vederli in campo viene da pensare che i comandi impiegano più tempo ad arrivare dal cervello ai piedi.
Li unisce, Zlatan e Sebastian, una circostanza anche quella molto ’calcistica’, segno dell’universalità del gioco più globalizzato del pianeta. Sono entrambi figli di immigrati, Ibra è uno svedese di Bosnia (madre croata), Giovinco un torinese di Calabria (madre siciliana), hanno cominciato a tirare calci nelle rispettive periferie industriali, Malmoe e Torino, con pochi soldi in tasca e una prevedibile voglia di farsi rispettare in contesti non facilissimi. Forse non li vedremo mai giocare insieme, Giovinco, più giovane di sei anni, è arrivato in prima squadra alla Juve quando Ibra si era già rifugiato a Milano, profugo miliardario di Moggiopoli. Farebbero comunque una coppia formidabile, le difese non avrebbero il tempo di prendere le misure a due tipi così differenti, il nano e il gigante chiedono contromisure opposte, è molto complicato riuscire a tenere sotto controllo contemporaneamente gli attacchi di terra e quelli di cielo.