Carlo Rossella, Panorama 9/4/2009, 9 aprile 2009
NESSUNO, TRANNE ME, PURTROPPO PREGA PER I SARTI
Nel centro di Milano c’è l’atelier del mio sarto Gianni Campagna: arredamento modello Savile row a Londra, cuoio, legni pregiati, stoffe in mostra, manichini con abiti imbastiti, in attesa di essere provati da clienti illustri le cui fotografie sono appese alle pareti. I tavoli sono zeppi di mazzette con i campionari pregiati, flanelle e velluti, lini e lane leggere calde e fresche allo stesso tempo. Il sarto è un uomo florido, parla italiano con simpatico accento siciliano, è stato allievo del grande Caraceni, ha una piccola squadra di artigiani a sua disposizione. Talvolta un concorrente gli ruba un sarto, ma lui non si perde d’animo, cerca e ricerca, fin quando non ha sostituito il fuggitivo con un altro dipendente altrettanto bravo.
Il milanese non è il mio unico sano. A Londra andavo da Hayward, a Myfair, morto da qualche mese, lasciandomi in eredità una bella sciarpa a righe degli anni Quaranta, introvabile. A Bologna ho due anziani piccoletti, i fratelli Di Donato, simpatici e bravi nel tagliare e nel cucire. A Napoli e a Torino ho i miei preferiti. Ma gira e rigira finisco sempre a Milano.
Parlando col mio sarto, ho avuto certezza che l’antica professione è a rischio estinzione, come gli orsi bianchi del Polo Nord. Tanto per avere conferma ho telefonato a Gianluca Isaia, un altro amico, proprietario di un’azienda di sartoria con 200 operai. un imprenditore di 45 anni, confeziona abiti su misura e in serie, ma fatti a mano. La sua fabbrica si trova dalle parti di Casalnuovo, a pochi chilometri da Napoli.
Negli anni Cinquanta Casalnuovo aveva metà della popolazione adulta iscritta all’albo dei sarti. Pure là gli artigiani scarseggiano. «Per costruire un sarto vero ci vogliono dai 15 ai 20 anni» dice Isaia. «Per chiamarsi sarto bisogna saper tagliare un abito, cucirlo, stirarlo. Solo così ci si può definire artisti delle forbici» aggiunge Campagna.
L’Italia è sempre stata la patria dei sarti, esportati anche all’estero, a Londra e a New York, a Parigi e a Los Angeles. Negli anni Settanta al quarto piano di Brooks Brothers, in Madison avenue, c’era un reparto su misura tutto di sarti italiani, siciliani e napoletani, maghi dell’ago e del filo nel continente delle confezioni in serie. Mi ricordo le discussioni fra i banchi, coi ferro da stiro fumanti, sulla scuola napoletana e siciliana. Io ho sempre preferito la prima: interni leggeri, spalla a camicia con «un’ostia di spallina» e «le pieghette in alto, all’attaccatura della spalla».
Un grande e ironico elegantone come Marcello Mastroianni raccontava che la giacca per essere perfetta deve stare attaccata, in qualunque condizione, al collo della camicia, senza quello spazietto che oggi, sempre più spesso, si vede in tv e sui giornali. E deve superare la «prova del tram». La giacca, ben fatta, di sartoria si vede quando uno alza il braccio per attaccarsi alla maniglia del tram: la giacca non si deve muovere dal corpo.
Nel piccoli centri le sartorie di una volta sono scomparse. Il sarto era in Italia un personaggio molto popolare, presente in tutti i paesi e in tutti i quartieri della città. Tanto popolare da non mancare mai nel presepe, insieme con l’arrotino e la lavandaia. Ora nel paesaggio non lo si trova quasi più. Il mass market delle confezioni ha ucciso il mestiere, i giovani non hanno più pazienza.
Come per i preti mancano le vocazioni. Ma nessuno, tranne me, prega per i sarti.