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 2008  novembre 26 Mercoledì calendario

I DOLLARI DI ALLAH


L’Islam fa finanza senza chiedere gli interessi. Glielo vieta il Corano.

Fare i soldi con la finanza islamica.

«Se il mondo occidentale avesse adottato i precetti della finanza islamica il crollo dei mercati a cui stiamo assistendo in questi giorni non si sarebbe verificato». Sono parole di Duncan Smith, direttore generale dell’Arab Banking Corporation (Abc), pronunciate nello scorso mese di marzo. La finanza islamica, pratica economica rispettosa della sharia, proibisce infatti di trarre vantaggio dalla mancanza di informazioni altrui, vieta la stipula di contratti legati a eventi ignoti, non ammette prodotti complessi (e tutt’altro che trasparenti) come le obbligazioni strutturate, di cui i mutui subprime e i cdo (collaterized debt obligations) divenuti tristemente familiari in questi ultimi mesi sono fra gli esempi più deteriori.

Il mercato internazionale è sempre più attratto dai prodotti della finanza islamica che non prevedono corresponsione di interessi (riba), escludono i comportamenti di irragionevole incertezza (gharar), la speculazione (masir), l’investimento in attività legate a tutto ciò che è esplicitamente proibito (haram) dal Corano (l’alcool, il gioco d’azzardo, i suini ecc.). La finanza islamica, spiegano gli esperti, non tratta denaro ma rapporti, collaborazioni, triangolazioni; non presta, partecipa. In base alla regola che il rischio va condiviso per raggiungere equità distributiva, un finanziatore non può imporre al debitore un tasso di interesse che non terrebbe conto dell’effettivo risultato dell’investimento.

Recita il sacro Corano: «O voi che credete! Temete Dio! Rinunciate, se siete dei credenti, a ciò che vi resta dei profitti dell’usura. Si vi pentirete, avrete salvo il vostro capitale» (Sura II, 279). Il Corano si limitava a vietare pratiche economiche che destabilizzassero l’ordine sociale, non qualunque tipo di tasso di interesse: la riba era infatti una pratica pre-islamica che prevedeva il raddoppio del debito nel caso non fosse stato onorato in tempo, una specie di usura causa di profonde frizioni. Gli economisti islamici riconducono il divieto all’interesse al divieto di fare profitti senza farsi carico dei rischi di impresa: chi dà capitale a prestito non correrebbe dei rischi in quanto la restituzione del debito è dovuta, indipendentemente dall’andamento dell’attività economica finanziata.

52227361_10_newsForse coerente da un punto di vista religioso, questa interpretazione si fonda su una concezione errata di rischio. Chi presta dei soldi rischia comunque che questi non gli vengano restituiti (vedi le obbligazioni Parmalat). Per questa ragione nei mercati liberi il tasso di interesse è tanto più elevato quanto più rischiosa è l’attività finanziata. In ogni modo, nella pratica le banche islamiche usano strumenti finanziari che prevedono una condivisione dei profitti e delle perdite tra risparmiatori, banche e imprese finanziate e non un tasso di interesse: i risparmiatori hanno diritto a una quota dei profitti della banca in cambio dei depositi.

Tralasciando le implicazioni religiose, per noi occidentali è difficile capire come sia possibile fare finanza senza la corresponsione di interessi. Prendiamo i mutui: nella finanza islamica la banca acquista l’immobile e ne cede il 20 per cento al cliente, che per la durata di un mutuo tradizionale acquista progressivamente un pezzetto della sua casa e paga un affitto che si riduce con periodici aggiustamenti mano a mano che cresce la quota di sua proprietà. Il canone d’affitto si basa sul tasso Libor, ammesso dalla finanza islamica in quanto ritenuto elemento trasparente. Il guadagno, per la banca, è garantito dal meccanismo di indicizzazione: si presuppone infatti che, dal momento dell’acquisto a quello in cui verrà finito di pagare il debito, il valore dell’immobile sarà aumentato ed è questa seconda cifra, più alta, quella da restituire.

52227428_10_newsLa differenza col nostro sistema sta nel fatto che da noi chi dopo pochi anni non è più in condizioni di pagare il mutuo perde tutto il denaro (perché la banca incassa prima gli interessi e dopo la cifra stanziata), col sistema islamico rimane proprietario della parte corrispondente al denaro che ha restituito fino a quel momento. Purtroppo un meccanismo di questo tipo non è applicabile in Italia perché anche la banca (e non solo il cliente) sarebbe costretta a pagare le tasse sull’acquisto dell’abitazione rendendo così l’operazione troppo onerosa.

Facciamo il caso di un imprenditore che abbia bisogno di mille dollari per sviluppare la sua attività: chiedendo un prestito a una banca occidentale dovrà restituire il denaro ricevuto più la percentuale corrispondente a un tasso d’interesse che è maggiore di quello che la banca applica sul denaro che riceve in deposito (il profitto sta proprio in questo scarto). Una banca islamica, invece, chiederà in cambio di entrare in società, mettiamo al 70 per cento: questo significa che, fino alla totale restituzione del prestito, il 70 per cento dei guadagni servirà per ripagare il debito. In questo modo, la banca si assumerà anche una parte del rischio d’impresa condividendo nel bene e nel male la sorte del debitore.

Se con i mille dollari verrà sviluppata l’azienda, ci sarà un aumento dei profitti e quindi una rivalutazione della percentuale di compartecipazione della banca. Per questo meccanismo, mentre a una banca occidentale non interessa che tipo di attività accetta di finanziare, un istituto di credito islamico entra nel dettaglio dell’investimento. E lo fa anche per un’altra ragione: in base alla sharia, non può aiutare attività legate alla pornografia, alla prostituzione e al gioco d’azzardo. A vigilare che fondi, banche e strumenti finanziari siano permessi (halal) ci pensano i consigli sciaraitici dal cui verdetto (farwa) non è assolutamente possibile prescindere.

Essendo vietata la speculazione, le banche islamiche investono in attività reali. Per questo sono stati inventati i sukuk, da sakk, termine arabo classico che significa documento (rappresenta un contratto o un obbligo monetario ed è anche alla radice del termine cheque, il nostro assegno). Diventati popolari in grandi nazioni come il Pakistan e la Malaysia, i sukuk sono obbligazioni che prevedono per gli investitori regolari pagamenti legati ad attività di proprietà dell’emittente: non è il denaro che frutta, ma il business che c’è dietro. Il governo di Islamabad, per esempio, ha collocato sul mercato un buono che finanzia la rete stradale pachistana e paga chi ha prestato il denaro con gli incassi dei pedaggi. In principio i sukuk erano emessi da governi e agenzie collegate e da istituzioni finanziarie, oggi i principali emittenti sono le imprese, per finanziare il loro business, e le banche di investimento, per rispondere alla richiesta di capitali con fonti di finanziamento stabili.

palm_island_resort_newsNel 2007 si contavano circa 180 sukuk e certificati islamici emessi nel mondo in sette valute diverse, lo scorso agosto il mercato globale dei bond islamici valeva approssimativamente 110 miliardi di dollari. Ideati per offrire ai musulmani uno strumento di gestione del risparmio ”eticamente compatibile”, sono diventati prodotti ambiti anche da chi con l’Islam non ha nulla a che fare. Secondo l’Assaif (centro studi e di ingegneria finanziaria no-profit con sede a Milano), nel 2006 l’emissione di 3,5 miliardi di dollari di Dubai World è stata sottoscritta al 30 per cento in Europa. Nel 2007, un altro bond da 3,5 miliardi è andato al 40 per cento nell’area euro, al 40 per cento nel Medio Oriente e al 20 per cento nel resto del mondo. Vi investono soprattutto fondi pensione, hedge funds, compagnie di assicurazione.

Raccontava nello scorso febbraio Arul Kandasamy, capo dell’Islamic banking di Barclays Capital: «Nel gennaio 2006 abbiamo realizzato un’emissione obbligazionaria secondo i parametri del sukuk per conto della società di sviluppo di Dubai che allora si chiamava Port Customs&FreeZone e oggi è diventata Dp World. Erano 3,5 miliardi di dollari e aderirono per l’80 per cento investitori mediorentali, per non più del 20 per cento occidentali. Nel dicembre dello stesso anno lanciammo un’emissione per l’immobiliare Nakheel, quella che ha creato la Palm Island di Dubai, da 5,52 miliardi: il 40 per cento è andato ad investitori occidentali. Nel febbraio 2007 abbiamo lanciato il sukuk da 2,53 miliardi per l’Aldar, un altro property developer: L’80 per cento l’hanno acquistato gli occidentali e solo il 20 gli arabi. Un esempio che credo dica tutto». Capire quanto sia proficuo investire in simili strumenti non è facile: il risultato viene comunicato solo ai sottoscrittori, nulla deve trapelare verso l’esterno, secondo la linea della massima riservatezza tipica degli ambienti finanziari islamici. Si sa però, per esempio, che nel 2007 il fondo islamico Income di Amana ha fruttato un utile del 14,1 per cento.

52227479_10__newsI cardini del mercato dei bond islamici sono la Malesia (60 per cento) e gli Emirati Arabi Uniti (25 per cento), poi Arabia Saudita, Kuwait Qatar, Bahrein, Indonesia, Egitto, Pakistan. Il primo bond islamico europeo (100 milioni di euro) fu varato nel 2004 dal ministro delle Finanze del land tedesco della Sassonia-Anhalt. Da allora i più prestigiosi istituti di credito occidentali (dall’inglese Hsbc alla Deutsche Bank, dalle francesi Société Générale e Bnp Paribas all’olandese Abn Amro) hanno manifestato un interesse sempre maggiore, dettato dal fatto che si parla di un mercato stimato in oltre mille miliardi di dollari.

Detto che i musulmani sono in tutto un miliardo e mezzo, le banche occidentali puntano a conquistare prima di tutto i 50 milioni che risiedono in Europa. La Gran Bretagna, che ne ospita 2 milioni, ha già cinque banche islamiche, la Francia, che ne ospita 6 milioni, è invece ancora in ritardo. In Italia tra i pionieri del settore c’è la Cassa di risparmio di Fabriano: già da qualche anno permette la conversione in buoni pasto degli interessi attivi sui depositi. Fra le società che hanno già cercato fondi in questo modo si segnala la Rosss spa di Scarperia, vicino Firenze, un’azienda da 29 milioni di euro di fatturato che produce scaffalature metalliche soprattutto industriali: per finanziarsi ha allestito road show a Doha, Dubai, Riad. Secondo l’Assaif si potrebbero cercare in questo modo anche i capitali per l’Expo di Milano 2015.

Massimo Parrini