Francesca Paci, la Stampa 6/1/2008, 6 gennaio 2008
FRANCESCA PACI PER LA STAMPA DI MARTEDì 6 GENNAIO 2009: LA STRISCIA DI GAZA
La verità è che neppure qui a Ramallah abbiamo tanta voglia di occuparci di Gaza», ammette Ali abu Gheit, 49 anni, dentista palestinese con l’ufficio a pochi isolati dalla Muqata, il quartier generale del presidente Abu Mazen.
Non c’è pace per la Striscia di Gaza. Dal piano di Spartizione delle Nazioni Unite del 1947 al conflitto degli ultimi giorni il destino di questo fazzoletto di terra lungo 40 chilometri e largo 10, uno dei luoghi più densamente popolati del mondo, è rimbalzato da uno all’altro dei contendenti, sotto sotto indifferente a tutti.
«Il primo ad aver capito che era meglio starne alla larga è stato Ben Gurion», osserva Amatzia Baram, docente di storia del Medioriente all’università di Haifa, uno dei maggiori esperti israeliani. Correva il 1949, anno primo dell’infinita guerra arabo-israeliana. L’Egitto aveva appena messo le mani su Gaza e, ad eccezione di una breve parentesi nel 1956, l’avrebbe tenuta fino al 1967. Senza nessun rimpianto da parte del fondatore dello Stato ebraico: «Ben Gurion non la voleva. Diceva che dopo l’armistizio raggiunto con la mediazione dell’ufficiale americano Ralph Bunche la Striscia aveva dato asilo a molti rifugiati, era già un focolaio di rivendicazioni e rabbia, molto meglio che restasse agli egiziani».
In realtà, nel 1956 Israele un pensierino ce lo fece. Dopo essere passata dagli ottomani agli egiziani attraverso un interregno inglese durante il mandato britannico della Palestina, Gaza avrebbe potuto nuovamente cambiare padrone. Come il presidente egiziano Nasser, Israele guardava con interesse al canale di Suez e al corridoio di Gaza. Alla fine non se ne fece niente: dopo 4 mesi di occupazione le truppe con la stella di David, avanzate nel frattempo fino al Sinai, si ritirarono lasciandosi alle spalle, ma non per molto, la questione meridionale.
Parecchi a Ramallah sono convinti che sia stata l’influenza del Cairo ad allontanare i palestinesi del Sud da quelli del Nord, all’epoca sotto il controllo giordano. la tesi del dentista abu Gheit: «Gaza è rimasta tradizionale, contadina, arretrata, terreno fertile per l’estremismo religioso». Basta fare un giro nelle strade intorno al suo studio, dove ogni giorno apre un ristorante nuovo e le vetrine espongono i prodotti delle più prestigiose marche occidentali, per capire il peso reale dei cento chilometri che separano la capitale della Cisgiordania da Gaza.
Il professor Baram ritiene invece che il problema sia precedente: «La situazione economica di Gaza era catastrofica già negli Anni 40. Col tempo è peggiorata, aggravata dall’influenza anti-occidentale dei Fratelli Musulmani, il movimento fondamentalista islamico egiziano. Nel 1967, all’indomani della Guerra dei sei giorni, Egitto e Israele hanno cominciato il gioco dello scarica-barile». Vinse (o perse) Israele e guadagnò il controllo di un milione e mezzo di abitanti di cui il 70 per cento sotto la soglia di povertà. Ventisette anni dopo, in seguito agli accordi di Oslo, la sovranità passò all’Autorità nazionale palestinese di Yasser Arafat, il primo e finora l’unico a rivendicare Gaza.
«Questa piccola striscia di terra stretta tra il Mediterraneo, l’Egitto e Israele era diventata per Arafat il nucleo del progetto dello Stato palestinese», racconta Gerald Butt nel volume «Life at the crossroads. A History of Gaza». All’epoca Israele non si era ancora ritirata completamente, manteneva ventuno colonie disseminate sul 20 per cento del territorio, piantagioni di banani e serre di fragole grandi come mandarini. Bisognerà attendere il 2005 perché il premier Ariel Sharon decida unilateralmente di smantellare gli insediamenti di Gaza uno a uno, riservandosi il controllo dei confini, dello spazio aereo e del mare.
Il resto è storia di questi giorni. La vittoria del partito islamico radicale Hamas alle elezioni palestinesi del 2006 e l’embargo internazionale capitanato da Europa e Stati Uniti che considerano il partito islamico un’organizzazione terrorista. La guerra civile del 2007 con i fratelli coltelli di al Fatah, il partito del presidente Abu Mazen, che in pochi giorni fece oltre un centinaio di morti. L’influenza trasversale dell’Iran, grande armatore di Hamas, e la profonda islamizzazione della società dove resiste solo uno 0,7 per cento di cristiani. Lo scontro frontale con Israele combattuto dai militanti di Hamas e della Jihad islamica a colpi di razzi lanciati sulle città del Negev fino all’invasione dei tank con la stella di David sabato notte. Tutti contro tutti per il possesso di Gaza, strategica ma poverissima, o per il suo definitivo abbandono.
La terra bruna è fertile e generosa ma in mancanza di macchinari agricoli l’attività principale dei gaziani è la pesca, fortemente limitata dal controllo israeliano del mare. Le famiglie sono numerose e più della metà della popolazione vive con gli aiuti dell’Unrwa, l’agenzia dell’Onu per i rifugiati palestinesi.
«La maggior parte sono profughi del 1948 che vivono di ricordi, sognano Haifa, Tel Aviv, quello che oggi è lo Stato ebraico», continua il professor Baram. Quando Gaza era «israeliana» andava spesso da quelle parti per i suoi studi: «Ho incontrato ragazzi di vent’anni che non erano neppure nati all’epoca della guerra del 1967 e dicevano di voler tornare a casa a Jaffa, nella terra dei nonni, dei bisnonni». Il mito dell’eterno ritorno. Per tutti. C’è anche chi sostiene che Gaza dovrebbe ridiventare egiziana, come l’ex ambasciatore americano all’Onu John Bolton che ieri, dalle colonne del Washington Post, suggeriva l’ipotesi creativa di una soluzione «tre popoli tre stati». Un nuovo giro di roulette.
«Peccato, a noi Gaza non dispiaceva affatto». La voce di Aharon Cruz, ufficiale di fanteria impegnato in prima linea nell’ennesima guerra di Gaza, arriva da lontano, assai più lontano della trincea di Jabalya, al di là delle linee nemiche e del tuono dei cannoni. Aharon viveva a Netzarim, il maggiore degli insediamenti ebraici evacuati nel 2005 da Sharon. Ora si ritrova a sparare tra le rovine della vecchia casa di famiglia, condannato, come i miliziani che prende di mira, a una eterna coazione a ripetere la stessa strada nel labirinto di Gaza.