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 2007  dicembre 28 Venerdì calendario

Dal 19 dicembre, quando era scaduta la tregua tra i fondamentalisti di Hamas e il governo di Gerusalemme, gli artiglieri di Hamas e della Jihad islamica avevano fatto piovere sulle cittadine israeliane del Negev una grandine di razzi Qassam

Dal 19 dicembre, quando era scaduta la tregua tra i fondamentalisti di Hamas e il governo di Gerusalemme, gli artiglieri di Hamas e della Jihad islamica avevano fatto piovere sulle cittadine israeliane del Negev una grandine di razzi Qassam. Missili artigianali, è vero, di limitata forza distruttiva (tanto che in dieci anni non hanno provocato più d´una diecina di vittime), ma capaci lo stesso da far vivere nel panico la popolazione israeliana nelle zone raggiungibili dalla loro portata. Ora, che un governo sia autorizzato a reagire con la forza quando i suoi cittadini sono sotto il tiro dell´artiglieria nemica, questo è indubitabile. In più, la dirigenza di Hamas avrebbe dovuto tenere in conto che il lancio di razzi sul Negev non poteva non suscitare la reazione d´un governo che tra un mese e mezzo si presenterà alle elezioni, ed è perciò deciso a non mostrarsi esitante, debole, dinanzi all´offensiva dei fondamentalisti islamici che controllano la Striscia di Gaza. E´ dunque probabile, come sosteneva ieri su «Repubblica» il più illustre scrittore israeliano, Amos Oz, che Hamas intendesse provocare la rappresaglia d´Israele, augurandosela il più possibile sanguinosa, così da stringere attorno alla sua linea estremista l´insieme del popolo palestinese, compreso quello della Cisgiordania amministrata dai moderati di Abu Mazen. E inoltre aggravando l´isolamento d´Israele nell´opinione pubblica - ma ormai anche tra i governi, compreso quello americano - dell´Occidente. Messa in chiaro la provocazione degli islamisti di Gaza, si deve però dire che il governo di Gerusalemme non è a sua volta privo di responsabilità per questo ulteriore, grave sussulto del conflitto israelo-palestinese. Pur durando nei mesi scorsi la tregua con Hamas, l´esercito israeliano ha infatti tenuto quasi sempre sbarrati i valichi tra Israele e Gaza, contribuendo così ad esacerbare le condizioni di vita d´una popolazione già tra le più miserabili del pianeta. I valichi chiusi salvo che per pochissimi giorni al mese (cinque giorni in tutto, per esempio, questo dicembre), hanno significato un arrivo sporadico e insufficiente dei rifornimenti di derrate, gasolio e medicinali. Fermi anche i camion con gli aiuti alimentari dell´Onu, che servono a far mangiare i due terzi del milione e mezzo di palestinesi che vivono nella Striscia. Lunghe interruzioni dell´energia elettrica, quindi niente luce né acqua corrente. E il tutto, a sentire autorevoli commentatori della stampa israeliana, senza vere motivazioni in materia di sicurezza e antiterrorismo. Una forma di «punizione collettiva», misura contraria al diritto internazionale. Ma la domanda più rilevante da porsi mentre fumano le rovine di Gaza city e si seppelliscono i morti, è se la rappresaglia di ieri abbia un senso, un´efficacia politica e militare. Domanda che scaturisce dalla storia dei quarantun anni dell´occupazione israeliana in Palestina. Quante sono state infatti le severe risposte dell´esercito di Israele alle azioni di guerriglia, agli attentati, alle rivolte dei palestinesi? E quale risultato ne è scaturito se non nuove spirali di violenza, altri attentati, una progressiva radicalizzazione dei palestinesi? Questo è il punto. Ed esso rimanda a tutte le occasioni perdute da Israele (e dai palestinesi, è ovvio) per giungere ad un compromesso che avrebbe consentito ai due contendenti di vivere in pace. Ormai dimissionario dopo che un tribunale lo ha posto sotto accusa per corruzione, ma in carica sino alle elezioni di febbraio, il primo ministro israeliano Ehud Olmert s´è pronunciato a questo proposito in modo estremamente chiaro. Lo ha fatto a novembre nel corso di un´intervista a «Yedioth Ahronot», il più diffuso quotidiano d´Israele, ripubblicata nell´ultimo numero della «New York review of books». Intervista che si può riassumere così: la politica d´Israele verso i palestinesi ha mancato di realismo e lungimiranza, è stato un fallimento. Per cui a questo punto, sostiene Olmert (che non proviene dalla sinistra bensì dalla destra, e che non ha mai avuto a che fare col movimento pacifista), per evitare nuove tragedie non resta che rimediare agli errori del passato. «Non solo dobbiamo perciò ritirarci da tutti o quasi tutti i territori occupati. Ma anche dalla Gerusalemme araba. Io sono stato il primo, e per decenni, a voler mantenere il controllo dell´intera città, ma oggi so che non è possibile». Politici e militari israeliani, continua Olmert, hanno completamente sbagliato la concezione della politica di sicurezza necessaria a Israele. I militari in specie, che ancora pensano e si muovono come ai tempi della guerra d´Indipendenza o della campagna nel Sinai. «Per loro è sempre questione del numero di carri armati, di mantenere le posizioni su questa o quell´altra collina, di controllare pezzo a pezzo i territori palestinesi. Ma queste sono idee completamente superate, fuori dalla realtà. Chi può davvero pensare che se avanziamo su un´altra collina, per qualche altro centinaio di metri, questo risolverà il problema essenziale della nostra sicurezza?». Interrogativo cui oggi, dopo i bombardamenti su Gaza, se ne può aggiungere un altro: chi può pensare che una nuova rappresaglia stroncherà la spinta dei palestinesi per mettere fine all´occupazione della Cisgiordania, e per quanto riguarda la popolazione di Gaza (che non è più occupata) il suo bisogno di vivere in modo accettabile, esportando i suoi prodotti agricoli e ricevendo cibo, medicine e il gasolio necessario a tenere la luce accesa, a riscaldarsi d´inverno, a non cucinare sugli sterpi? Israele sta oggi entrando in una fase critica, tra le più critiche (sia in politica interna sia nei rapporti internazionali) della sua esistenza. Alcuni giorni fa il quotidiano Haaretz riportava la frase d´un esponente del governo Bush, pronunciata a commento della posizione Obama-Hillary Clinton su un´immediata risposta nucleare americana nel caso che Israele venisse attaccata dall´Iran con armi nucleari. Diceva il collaboratore di Bush: «Intervenire? Bisognerebbe sapere a quel punto come spiegare a un cittadino del Kansas che ci facciamo coinvolgere in una guerra atomica perchè l´Iran ha bombardato Haifa. E dopo tutto, a che servirebbe intervenire dopo che le città israeliane saranno già state distrutte?». Olmert ha quindi ragione quando dice che Israele non può essere più sicuro soltanto mettendo l´esercito su questa o quell´altra collina, continuando con le rappresaglie e affidandosi alla protezione americana. A minacciarlo sono adesso i lanciamissili di Hamas a sud e di Hezbollah a nord, le agghiaccianti promesse iraniane di cancellare lo Stato degli ebrei dalla carta geografica, e l´emergere nel mondo politico, in quello accademico e nell´opinione pubblica degli Stati Uniti, di sempre più voci che chiedono una modifica, un allentamento, del rapporto con Israele. Così, dice Olmert, la sola idea di sicurezza possibile è adesso trattare con i nostri avversari. Avremmo dovuto cominciare a farlo trent´anni fa, sfortunatamente non lo si è fatto, ma ormai è certo che non ci sono altre soluzioni. Trattare con tutti, e persino con chi non riconosce, come gli estremisti di Hamas, l´esistenza d´Israele.