Guido Crainz, la Repubblica 27/12/2007, 27 dicembre 2007
Il riemergere della corruzione come nodo politico e la diffusione della "normale" violazione della legalità (la "corruzione inconsapevole" di cui ha parlato Roberto Saviano) inevitabilmente rimandano ad un rapporto di lungo periodo fra sistema politico e Paese
Il riemergere della corruzione come nodo politico e la diffusione della "normale" violazione della legalità (la "corruzione inconsapevole" di cui ha parlato Roberto Saviano) inevitabilmente rimandano ad un rapporto di lungo periodo fra sistema politico e Paese. E il largo coinvolgimento del centrosinistra rinvia non alle confuse vicende di anni recenti ma ad una storia più antica. La "diversità" comunista appare oggi reperto archeologico ma non è inutile interrogarsi sulle modalità del suo incrinarsi ed esaurirsi. Conviene partire da anni insospettabili, ad esempio dallo scenario degli anni Settanta: più esattamente, dal momento in cui le tangenti petrolifere ai partiti di governo rendono evidente il delinearsi di una corruzione sistematica e non episodica. illuminante il dibattito che si svolge nella Direzione del Pci proprio nel 1974, in relazione alla legge sul finanziamento pubblico ai partiti varata sull´onda di quello scandalo. L´iniziale e periferico coinvolgimento del Pci in pratiche illegittime è registrato con estrema preoccupazione, e in autorevoli interventi il finanziamento pubblico è visto come possibile strumento di una duplice autonomia: da un lato dall´Urss, dall´altro dalle pressioni illecite - e non sempre respinte - sulle amministrazioni locali. Alla luce di questi e altri non piccoli segnali, l´insistenza dell´ultimo Berlinguer sulla diversità comunista ci appare oggi non tanto l´orgogliosa sottolineatura di una solidissima realtà quanto l´appassionato e quasi angosciato appello ad un dover essere, l´aggrapparsi ad un elemento che vedeva scolorirsi sotto i suoi occhi. E che gli era apparso sin lì il più sicuro antidoto a quel degrado del sistema politico che stava conoscendo forti accelerazioni. Già nel 1980 su questo giornale Massimo Riva annotava che «il radicarsi della corruzione dentro le strutture dello stato» appariva senza «precedenti storici che possano consolare». Nello stesso anno Italo Calvino regalava ai lettori un lucidissimo Apologo sull´onestà nel paese dei corrotti che iniziava così: «C´era un paese che si reggeva sull´illecito». Sempre allora Ernesto Galli della Loggia su Mondo Operaio vedeva delinearsi una «uscita dalla legalità dell´intera classe dirigente». Ed è dell´anno successivo la appassionata denuncia di Berlinguer nell´intervista ad Eugenio Scalfari riproposta nelle sue parti essenziali da la Repubblica di domenica scorsa. Voci differenti, come quelle che nel corso del decennio segnaleranno con allarme crescente, nel diffondersi di arresti e processi, una degenerazione inarrestabile, un salto di qualità impensabile pochi anni prima. A rileggere cronache giudiziarie e acute analisi giornalistiche c´è da chiedersi semmai perché il ciclone di Tangentopoli sia venuto solo così tardi. Nel 1986, ad esempio, sempre su queste pagine Giovanni Ferrara osservava: «Il legame di fiducia fra i partiti e l´opinione pubblica è ormai teso al punto di spezzarsi: come in una corda marcita molti fili sono già rotti ed ogni giorno ne salta ancora uno». E nello stesso anno Giorgio Bocca analizzava bene la "cultura della corruzione": nelle parole degli imputati ai processi, annotava, le tangenti appaiono «necessarie come il lievito alla panificazione». Bocca si riferiva allora a Milano, e quattro anni dopo Giampaolo Pansa poteva parafrasare in un titolo - Milano corrotta, nazione infetta - la storica denuncia dell´Espresso degli anni Cinquanta relativa alla Roma della speculazione edilizia. un titolo del 1990, non del 1992. Poco dopo ancora Bocca annotava: «L´assenza di regole domina ovunque, anche nella "capitale morale". E siamo qui nell´angoscia, nell´umiliazione di un nodo che sembra irrisolvibile». Non mancavano riflessioni ancor più generali. Nel declinare degli anni Ottanta Silvio Lanaro iniziava una densa ricognizione storica (L´Italia nuova, Einaudi 1988) imponendo al lettore dati impietosi: da un lato il volume significativo ormai raggiunto dal "reddito da tangenti" (di poco inferiore, si valutava, a quello di estorsioni e ricatti, o al bottino complessivo di furti e rapine); dall´altro l´immagine di un Paese privo di regole e consapevole di esserlo. Poi, negli anni di Tangentopoli, le riflessioni sull´identità italiana si intensificano e si addensano, alimentate anche dalla irruzione sulla scena della Lega. Già nel 1991 Pietro Scoppola ne La Repubblica dei partiti (Il Mulino) tracciava una ricostruzione disincantata e quasi sofferente del declino di un sistema politico nel quale aveva creduto a lungo (e ancora voleva credere). Nel 1993 esce Se cessiamo di essere una nazione di Gian Enrico Rusconi (Il Mulino), che si annuncia sin dal titolo, mentre Lorenzo Ornaghi e Vittorio Emanuele Parsi annotano: «Nessun discorso sull´Italia repubblicana può scansare la domanda se la nostra società possa dirsi davvero una società. O se mai lo sia stata» (La virtù dei migliori, Il Mulino). Ancora nel 1993 La grande slavina di Luciano Cafagna (Marsilio) offre ulteriori e stimolanti affondi, dando non effimero fondamento al giudizio che Giuliano Amato pronunciava allora dimettendosi da Presidente del Consiglio (e suscitando polemiche). Nella crisi degli anni Novanta Amato vedeva infatti la fine di «quel modello di partito-Stato che fu introdotto in Italia dal fascismo e che la Repubblica aveva finito per ereditare», sostituendo il partito unico con un sistema pluralistico sì ma partitocratico (e alla partitocrazia come lascito del fascismo era appunto dedicato un capitolo del pamphlet di Cafagna). Al di là di polemiche e toni d´epoca è difficile negare che abbiano avuto prepotente impulso se non origine nel ventennio il diffondersi della politica come mestiere e al tempo stesso la confusione fra interessi dello Stato e interessi del partito (un partito onnivoro come il Pnf, contornato di istituti ed enti). Di lì a poco Eugenio Scalfari toccava un nodo centrale chiedendosi: «Qual è stato il momento nel quale una società operosa e dinamica si è trasformata in un immenso verminaio collettivamente dedito alla dilapidazione delle risorse e al malaffare fatto sistema?». Con molte ragioni collocava questa «grande mutazione genetica» negli anni Sessanta, cioè nella tumultuosa trasformazione che aveva posto fine all´Italia arcaica e contadina. Ci sarebbe voluta una classe dirigente moralmente e professionalmente adeguata, aggiungeva, per governare quel processo: «In assenza di essa, tutti i valori sono andati dispersi, tutte le regole calpestate, tutti i rapporti imbarbariti». In questi e altri interventi, dunque, la critica al sistema dei partiti si legava strettamente ad un più generale esame di coscienza e su La Stampa Norberto Bobbio osservava: «Una fine così miseranda [della "prima Repubblica"] è l´espressione del fallimento di tutta una nazione». Sul Corriere della Sera Giovanni Raboni si chiedeva Ma noi dove eravamo?, mentre Claudio Magris annotava: «Da qualche tempo si avverte quasi fisicamente, per la prima volta, la possibilità che il Paese si dissolva e che tra breve l´Italia, nella sua attuale forma politico-statuale e quindi anche culturale, possa non esistere più». Dal canto suo Galli della Loggia si interrogava sulla "solitudine interna" di una società che non riesce a «scorgere in se stessa alcuna fonte vera di orientamento a cui rivolgersi» e aggiungeva poi: la «corruzione dall´alto» si incontra con quella che «proviene dal basso, dagli strati profondi della società italiana (...) i politici, gli industriali, gli alti burocrati hanno potuto fare mercato della cosa pubblica perché tutti gli italiani, senza distinzioni, da sempre tendono a usare il pubblico in modo del tutto privato». Alla lunga distanza c´è da chiedersi perché domande così radicali non abbiano trovato allora molti interlocutori, e in larghi settori dell´opinione pubblica siano state poi sepolte dall´illusione in una salvifica "seconda Repubblica". Quella illusione ha lasciato un retrogusto amaro e viene alla mente quel che Guido De Ruggiero scriveva nel 1944, nella Roma più precocemente liberata: attorno a sé scorgeva infatti i segni di "un regime in sfacelo più che di una democrazia in divenire". Così ci appare oggi anche l´Italia dei primi anni Novanta e c´è da riflettere a fondo non solo sui processi che hanno attraversato in questi ultimi quindici anni il sistema politico ma, più ancora, su quelli che hanno attraversato l´intero paese.