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 2007  dicembre 28 Venerdì calendario

Il 2008 si sta per chiudere senza che sia stata eseguita la ripubblicizzazione della Banca d’Italia, il cui capitale è detenuto da poche grandi banche ormai privatizzate

Il 2008 si sta per chiudere senza che sia stata eseguita la ripubblicizzazione della Banca d’Italia, il cui capitale è detenuto da poche grandi banche ormai privatizzate. La legge sul risparmio lasciava 3 anni di tempo, è possibile che serva ancora qualche mese. Nel mentre, molto è cambiato. La riforma della proprietà della Banca d’Italia non servirebbe più a sancire il dopo Parmalat, ponendo fine a un conflitto d’interessi più formale che reale, ma a ricapitalizzare le banche. Suona male dirlo così, ma la realtà è quello che è. E la crisi finanziaria globale, riducendo l’autorevolezza dei governatori senza aumentare quella dei politici, ha fatto capire quali danni vengano dalla subalternità dei banchieri centrali alla fratellanza siamese governi-finanza. Peserà tutto ciò, e come, nella soluzione del problema? Un tempo i mezzi propri della Banca d’Italia sembravano eccessivi. Non a caso uomini diversi come Ciampi e Tremonti hanno entrambi spostato un po’ di risorse da Via Nazionale al Tesoro. All’alba del 2009 quel giudizio va aggiornato. Un tempo la Federal Reserve era presa a modello. Adesso anche Niall Ferguson riconosce che la Fed assomiglia ormai a un hedge fund con debiti pari a 50 volte il capitale. Una Banca d’Italia con 244 miliardi di attività e 24 di mezzi propri, e dunque con un rapporto tra quelle e questi di 10 volte (e anche meno tenendo conto dei conti di rivalutazione), è cosa ben più rassicurante. Tale diversità, va detto, è figlia dell’antica decisione politica di lasciare in capo alla Banca centrale gran parte dei suoi profitti da monopolio. La Banca d’Italia ha dunque un tesoretto disponibile al di là degli obblighi verso l’Eurosistema. Ma sarebbe imbarazzante se lo usasse per investire nelle banche: il vigilante non partecipa al capitale dei vigilati. Di più, la forza patrimoniale della Banca centrale va rispettata, nella sostanza. E tuttavia un contributo alla ricapitalizzazione del credito verrebbe se le banche potessero vendere le loro quote della Banca d’Italia, oggi non negoziabili. A chi vendere nel rispetto dei Trattati europei, che proteggono l’indipendenza delle Banche centrali, e a quale prezzo in una logica di mercato diventano così i passaggi cruciali per quadrare il cerchio. Compratori potrebbero essere soggetti pubblici e privati, purché numerosi e paghi di piccole carature senza potere e con un rendimento proporzionato al basso rischio. A questi parametri andrebbe ricondotto il prezzo delle quote della Banca d’Italia, non già il loro valore che è modestissimo, data la storia, lo statuto e le funzioni dell’ente. Per aiutare le banche senza gravare sui conti pubblici, si potrebbero ricollocare le quote per una cifra significativa ma sostenibile dalla Banca centrale. Tenendo conto della variabilità dei risultati, 3,3 miliardi nel triennio 2004-06 quasi per intero accantonati a riserva, la Banca d’Italia potrebbe dare al nuovo azionariato 300-350 milioni l’anno e dunque giustificare un prezzo di 8-9 miliardi che molto aiuterebbe la ricapitalizzazione di Intesa Sanpaolo, Unicredit e Monte dei Paschi. Non sarebbe la perfezione, ma talvolta il meglio è nemico del bene.