Gian Antonio Stella, Corriere della Sera 28/12/2007, 28 dicembre 2007
«Romania e Libia, chiuse le falle», esultava tre mesi fa La Padania. Magari! Numeri alla mano, non sono mai sbarcati tanti clandestini a Lampedusa quanti quest’anno: 30
«Romania e Libia, chiuse le falle», esultava tre mesi fa La Padania. Magari! Numeri alla mano, non sono mai sbarcati tanti clandestini a Lampedusa quanti quest’anno: 30.682. Molto più del doppio che nel 2007 dei «buonisti» sinistrorsi. Prova provata che il problema non si risolve con gli schemini. Né con la politica degli annunci. Soprattutto quando c’è di mezzo il colonnello Gheddafi. I cui impegni sul fronte della guerra ai trafficanti di uomini sono ormai diventati un tormentone da telenovela. Sono anni che il tema delle responsabilità libiche nella tratta degli immigrati è sul tavolo. Lo denunciano i reportage giornalistici, come lo straordinario viaggio coi clandestini di Fabrizio Gatti, pubblicato dal «Corriere» alla fine del 2003. Lo confermano le organizzazioni umanitarie internazionali. Lo ribadiscono le testimonianze di chi approda sulle nostre coste. E sono anni che i governi di destra e di sinistra e poi ancora di destra tentano di arrivare a un accordo serio (serio: non a chiacchiere) con Tripoli per concordare una politica comune che scoraggi il businness dell’emigrazione illegale, un affare che già cinque anni fa fruttava ai gestori dell’immondo commercio, per la sola tappa libica, almeno due milioni di euro al mese. Il primo a spingere sull’acceleratore fu Beppe Pisanu, che scosse nell’estate 2004 gli italiani lanciando un allarme terrificante: «In Libia ci sono due milioni di disperati in attesa di raggiungere l’Europa». Una denuncia che, giusta o esagerata che fosse, poneva un problema: come facevano decine di migliaia di persone ad attraversare illegalmente un Paese dove i (rari) turisti fai-da-te possono venire fermati, controllati, costretti a mostrare il passaporto e ad aprire il bagagliaio anche venti o trenta volte sulla litoranea Tripoli-Bengasi? Un Paese dove a certi diplomatici italiani, oltre all’accredito della Farnesina e a una sfilza di documenti, è stato chiesto di fornire prima dell’insediamento 24 (ventiquattro!) fototessere personali? Perché questo è il punto: quello di Muammar Gheddafi non è un regime mollaccione che controlla svogliatamente il territorio. uno Stato dove la polizia mostra di esser ben presente in ogni momento, ogni occasione, ogni luogo. E passare a decine di migliaia sotto il naso agli agenti senza essere notati appare piuttosto complicato. Conclusioni? Una delle due. O la tratta di immigrati avviene grazie a una corruzione generalizzata alle spalle delle massime autorità (?) oppure è stata tollerata come strumento di pressione nei confronti dell’Italia. Dalla quale la Libia pretende da anni un risarcimento per i bombardamenti col gas, i lager nella Sirte, le deportazioni alle Tremiti e insomma i crimini commessi dal colonialismo giolittiano e più ancora da quello mussoliniano. Bene. Solo pochi mesi dopo la denuncia di Pisanu, il suo sottosegretario agli Interni, Antonio D’Alì, dichiarava trionfante: «Entro due mesi i centri di raccolta in Libia». Ma era solo il primo d’una serie di incontri, appuntamenti, promesse. Proseguiti con il responsabile prodiano del Viminale Giuliano Amato. Il quale, alla fine del 2007, siglava, col ministro degli Esteri libico Abdurrahman Mohamed Shalgam, un’intesa che pareva chiara. «Le due parti intensificheranno la collaborazione nella lotta contro le organizzazioni criminali dedite al traffico degli esseri umani e allo sfruttamento dell’immigrazione clandestina», spiegava la nota ufficiale, grazie anche a «pattugliamenti marittimi congiunti davanti alle coste libiche». Era già definito anche l’escamotage per evitare di offendere gli amici libici pattugliando acque territoriali loro. Ci sarebbe stata una «cessione temporanea alla Libia di sei unità navali della Guardia di finanza (tre guardacoste e tre motovedette) per operazioni di controllo, ricerca e salvataggio nei luoghi di partenza delle "carrette del mare", sia in acque territoriali libiche che internazionali ». Pareva fatta, pareva. Ma già alcuni mesi dopo il nuovo governo di destra scopriva che la svolta, quella vera, non c’era stata affatto. Nonostante una offensiva diplomatica del Cavaliere, al quale il Colonnello libico mostrò fin dalla discesa in campo del 1994 («Io e Silvio siamo fatti per intenderci, in quanto rivoluzionari») una certa simpatia. «La visita di Berlusconi a Gheddafi evidentemente non è bastata», si sfogava a metà luglio il ministro degli Interni Roberto Maroni: «Senza il pattugliamento delle acque libiche è difficile bloccare questo flusso. Il fatto è che il governo libico non dà l’ok all’attuazione di un accordo sottoscritto, con tanto di piano attuativo, dal ministro Amato. Abbiamo sei motovedette pronte a pattugliare le coste libiche, in base proprio a quest’accordo: basta solo che il governo libico dia l’ok». Macché: niente. Finché a fine agosto, dopo estenuanti trattative (che avevano visto l’Italia accettare per una serie di pendenze libiche il cambio «eccentrico» di due euro per un dinaro libico) il Cavaliere portava finalmente a casa un accordo che pareva di ferro. Costosissimo, visto che oltre alle scuse per i crimini coloniali prevedeva un risarcimento di 5 miliardi di dollari in rate annuali di 250 milioni più una serie di codicilli (sbandierati dal Colonnello come l’impegno italiano a rifiutare l’uso delle sue basi alla Nato e agli Usa in caso di «aggressione» alla Libia), ma di ferro. Il nostro premier, felice per il successo, regalò a Gheddafi (che ricambiò donandogli «un abito bianco di lino, con camicia assortita ») «un leone d’argento, con la testa apribile» che conteneva un calamaio con le penne usate per firmare il trattato. Di più: «Al calendario delle festività libiche – spiegavano le cronache – si aggiungerà la giornata di oggi, di "riconciliazione con l’Italia", mentre verrà depennata "la giornata della vendetta" del 7 ottobre». Pareva fatta davvero, stavolta. Al punto che Umberto Bossi gongolò: «Questo accordo sterilizza la situazione con il Paese che ci manda tutti gli immigrati». Ma come succede in tutte le telenovelas, era solo la premessa a una nuova puntata di complicazioni. Tanto che Bobo Maroni, a distanza di una ventina di giorni, già sbuffava impaziente perché gli sbarchi non erano diminuiti. Di più, dopo aver detto d’aver deciso di «condizionare alcuni finanziamenti previsti dal trattato alla effettiva attuazione degli accordi» aveva avvertito: «A ottobre andrò in Libia affinché gli accordi internazionali vengano rispettati». Non l’avesse mai detto! Immediata risposta di Tripoli: «Per quanto riguarda la dichiarazione del ministro Maroni di arrivare a bordo di una motovedetta che sarà prestata alla parte libica, lo informiamo che la Libia rifiuta il suo arrivo in questo modo spettacolare e, se desideriamo riceverlo, saremo noi ad indicare la data e il modo in cui potrà arrivare». Fatto sta che quest’anno (quattro mesi prodiani, otto berlusconiani) gli sbarchi a Lampedusa, secondo la questura di Agrigento, sono già 30.682. Quasi dodicimila più che nel 2005 e nel 2006 e addirittura 17.564 più che nel 2007 ulivista. Un aumento mostruoso del 134%. Fosse successo con un ministro di sinistra, potete scommetterci, sarebbe venuto giù il diluvio. Ricordate la fine di maggio del 2006? Prodi si era insediato da quattro giorni, il centro di prima accoglienza dell’isola siciliana si era riempito di 800 clandestini e Gianpaolo Landi, di An, tuonava: «L’effetto lassismo e buonismo della sinistra radicale in materia di immigrazione ha già fatto il giro del mondo. Assistiamo al preoccupante cedimento delle frontiere...». La stessa opinione di Roberto Calderoli contro Paolo Ferrero: «Gli annunci fatti sul delicato tema dell’immigrazione sono stati accolti come una manna dal cielo da chi attendeva, sull’altra riva del Mediterraneo». Risultato: «Stanno scatenando un’invasione ». Sarebbe facile oggi alla sinistra, con questi numeri (ieri sera i nuovi arrivati in poche ore erano 1.507) rendere pan per focaccia. E possiamo stare certi che sarebbe facile alla destra ribattere che questi sono i frutti avvelenati giunti a maturazione di anni di politiche sinistrorse troppo morbide. Certo è che, al di là dei torti e delle ragioni, il problema è troppo serio per essere liquidato con le formulette. Emergenza Quest’anno ci sono stati a Lampedusa 30.682 sbarchi di migranti: 17.564 in più che nel 2007. Nella foto un ospite del Centro di prima accoglienza (Emblema) Gian Antonio Stella