Vittorio Malagutti, L’espresso 30/1/2008, 30 gennaio 2008
L’espresso, 30 dicembre 2008 Il diavolo ha cambiato faccia. Non ha più i tratti giovanili e lo sguardo strafottente di Jerome Kerviel, il broker francese che l’anno scorso riuscì da solo a mettere in ginocchio un colosso come la banca parigina Société Générale
L’espresso, 30 dicembre 2008 Il diavolo ha cambiato faccia. Non ha più i tratti giovanili e lo sguardo strafottente di Jerome Kerviel, il broker francese che l’anno scorso riuscì da solo a mettere in ginocchio un colosso come la banca parigina Société Générale. Adesso è il volto di un distinto signore di New York a evocare tutti i peccati della finanza internazionale. Un manager partito dal nulla che in mezzo secolo di onorata carriera si è costruito la fama di professionista rispettabile. Di più: era diventato un punto di riferimento per i nomi più ricchi e famosi della comunità ebraica statunitense. Adesso che la crisi globale dei mercati ha spazzato via il suo castello di carte, è lo stesso Bernard Madoff, per tutti Bernie, a confessare che le fortune della sua società d’investimento erano il frutto di una gigantesca, sconcertante frode. In quella che i giornali americani si sono affrettati a definire la più grande truffa della storia di Wall Street sarebbero spariti nel nulla circa 50 miliardi di dollari grazie a una ben oliata catena di Sant’Antonio. In pratica, secondo quanto recita la versione ufficiale resa nota dalle autorità americane, i guadagni degli investitori venivano pagati con i fondi versati dai nuovi clienti. Le indagini finora hanno illuminato solo pochi frammenti di questa straordinaria storia di malaffare. Le responsabilità delle autorità di vigilanza sui mercati, a cominciare dalla Sec, appaiono fin d’ora molto pesanti. Con ogni probabilità, comunque, serviranno mesi, forse anni, per venire a capo della contabilità della truffa, mentre si profila una gigantesca battaglia legale per stabilire chi davvero ha la responsabilità del buco. Perché, a ben guardare, se ai più era già sembrato incredibile che il pivello Kerviel, per quanto geniale, fosse riuscito da solo ad aggirare la rete di controlli interni di una multinazionale bancaria, la Madoff story, così come è stata divulgata finora, pare davvero una favola senza lieto fine. Una favola nera. Il diabolico Bernie, infatti, non ha piazzato titoli bidone a una folla di ignari risparmiatori popolata di orfani e vedove. No, l’ex bagnino diventato miliardario, ora agli arresti domiciliari nella sua residenza da 7 milioni di dollari a Manhattan, si sarebbe impunemente fatto beffe per una ventina d’anni (almeno) di decine di blasonate istituzioni finanziarie in giro per il mondo. Banche internazionali come per esempio la britannica Royal Bank of Scotland, lo spagnolo Banco Santander, la francese Bnp e anche le italiane Unicredit e Banco Popolare. Dietro il pifferaio magico di Wall Street si sono diligentemente incolonnati anche alcuni gestori di grandi hedge fund. Che poi dovrebbero essere, almeno in teoria, la categoria di investitori più sofisticati. Gente che si muove sulla base di modelli di rischio matematici. Insomma, professionisti che non lasciano nulla al caso. Questi gnomi della turbo finanza si celano dietro società d’investimento accessibili solo a pochi eletti, con sede legale nei paradisi fiscali dei Caraibi e uffici a Londra e Wall Street. La retorica ufficiale li descrive come le truppe d’elite delle Borse. Eppure tre pesi massimi dei fondi speculativi come Fairfield, Kingate e Tremont hanno puntato su Madoff, e quindi perso, in totale quasi 15 miliardi di dollari. Questi tre marchi si trovano in cima alla piramide dello scandalo. E ognuno di loro ha finito per coinvolgere nel disastro centinaia di propri clienti, quelli che avevano sottoscritto i prodotti hedge legati alle gestioni di Bernie il truffatore. La lista completa delle vittime del crack probabilmente non si conoscerà mai. Fanno parte della scelta compagnia soprattutto investitori istituzionali (fondi, assicurazioni, banche). E poi privati cittadini. Roba da ricchi, comunque, molto ricchi. Per questo tipo di gestione patrimoniali raramente il biglietto d’ingresso costa mano di 500 mila euro. E quasi sempre i soldi partono da conti bancari svizzeri intestati a società con base nei paradisi fiscali. Anonimato garantito, quindi. Con buona pace del fisco. E così sembrano destinate a restare senza conferme le indiscrezioni sui facoltosi italiani, compresi alcuni nomi molto conosciuti del capitalismo nazionale, inciampati in questo nuovo scandalo globale. Eppure, seguendo la pista del denaro, si arriva ad almeno due professionisti italiani che, grazie a un’ampia rete di contatti nel mondo industriale e finanziario, negli anni scorsi hanno involontariamente contribuito a diffondere il virus di Madoff nella Penisola. Carlo Grosso e Federico Ceretti da anni gestiscono la Fim advisers, uno società londinese di gestione e consulenza nel campo degli hedge fund. Tra i fondi di cui sono distributori compaiono anche i famigerati (adesso) Kingate Europe e Kingate global che hanno bruciato circa 3,5 miliardi di dollari. Quasi 200 milioni di dollari, ma la cifra è priva di conferme ufficiali, sarebbero riconducibili a clienti della Fim. Grosso e Ceretti si sono costruiti nel tempo la fama di professionisti affidabili, prudenti. Dichiarano patrimoni in gestione per 2,6 miliardi di dollari e, a giudicare dai bilanci, la loro società ha fin qui navigato con il vento in poppa. Nel 2004 il giro d’affari, frutto di commissioni, superava di poco i 4 milioni di sterline, pari a 4,2 milioni di euro. Nel 2006 gli incassi erano balzati a 17 milioni e l’anno scorso hanno toccato i 27,2 milioni di sterline, più di 28 milioni di euro, con profitti per quasi 15 milioni. Il punto di forza di Fim, che ha aperto filiali a New York e Bermuda, sono le gestioni cosiddette ’low vol’, cioè a bassa volatilità, che offrono rendimenti di poco superiori ai titoli di Stato ma stabili nel tempo. Quello che ci vuole soprattutto per i grandi investitori che non amano prendersi troppi rischi. In un articolo celebrativo pubblicato poco più di un anno fa da una rivista specializzata, i due finanzieri italiani vantano l’affidabilità e l’esperienza del loro team di esperti che seleziona e periodicamente verifica i manager esterni verso cui vengono indirizzati i capitali affidati in gestione alla Fim. Eppure, a quanto si è capito finora, nessuno di questi controllori si è sorpreso nell’analizzare le performance realizzate da Kingate. Risultati sempre, costantemente positivi, salvo rarissime eccezioni anche nella fasi di mercato più turbolente. E i manager di Fim, ovviamente, non faticavano a trovare clienti. Anzi c’era la fila per salire a bordo. Qualche banchiere racconta che i loro prodotti venivano piazzati come fondi chiusi. Nel senso che per investire in Kingate si doveva attendere che qualcuno dei sottoscrittori liquidasse le sue quote. Vero? Oppure la storia della lista d’attesa faceva parte di una ben studiata strategia di marketing? Alla fine, comunque, la miglior pubblicità erano i rendimenti. Un ex cliente racconta che nell’ultimo anno, l’anno del cataclisma sui mercati, le settimane chiuse con una performance negativa si contano sulle dita di una mano. La ricetta di un simile successo era semplice, a pensarci adesso. Bastava applicare il metodo Madoff, in cui i rendimenti erano finti, costruiti a tavolino. E i fondi Kingate, legati a doppio filo al re Mida di Wall Street, non potevano che viaggiare gonfie vele. Veloci e sicuri, forse troppo. Tant’è vero che alcuni operatori con base a Lugano e a Ginevra, interpellati da ’L’espresso’, riferiscono che nei mesi scorsi si era diffuso un certo scetticismo sui risultati di questi fondi dei miracoli. Certo, ora che la truffa è finalmente venuta a galla diventa fin troppo facile prendere le distanze, dare voci a dubbi e sospetti. Fatto sta che ai bei tempi, ai tempi della bolla fragorosamente scoppiata nei mesi scorsi, la giostra degli hedge fund ha girato alla grande garantendo flussi di liquidità miliardari a tutti i partecipanti al gioco. Commissioni di gestione, di distribuzione, di amministrazione: la torta da spartire era immensa e continuava a crescere sull’onda di un mercato drogato dai bassi tassi d’interesse. Le banche partecipavano al gioco nel ruolo di investitori, ma anche come depositarie dei patrimoni in gestione. Mentre si ingrossava l’esercito dei gestori dei fondi, dei fondi di fondi e infine dei semplici piazzisti di prodotti altrui. In questa kermesse del guadagno facile è lecito supporre che qualche protagonista abbia abbassato la guardia. Che interesse poteva avere a cavillare sui controlli una banca che ogni anno incassava provvigioni multimilionarie da un hedge fund? E poteva dimostrarsi inflessibile il manager che aveva conquistato decine di clienti piazzando il fondo speculativo della società alleata? Era una lotteria in cui tutti i partecipanti sembravano possedere il biglietto vincente. In questa particolare nicchia di mercato le tariffe imposte agli investitori sono da sempre elevatissime. I gestori trattengono l’1 per cento sui patrimoni gestiti, ma a volte anche di più e poi il 20 per cento sull’utile realizzato dal fondo speculativo. Si capisce perché, allora, negli anni scorsi gli hedge fund abbiano cominciato a spuntare come funghi. Trader di grandi banche, analisti e strategist con una formazione matematica si sono messi in proprio creando piccole società di gestione. Nelle isole Cayman, capitale mondiale di questo tipo di finanza speculativa, ancora poche settimane fa si contavano più di 10 mila hedge fund regolarmente registrati. Un esercito che sembra in ritirata. Da quando, nel settembre scorso, le Borse sono crollate, ogni settimana decine di fondi chiudono i battenti messi al tappeto dalle richieste di riscatto. Ma adesso, per effetto dello scandalo Madoff, la ritirata potrebbe trasformarsi in una fuga precipitosa. Roba da far impallidire il ricordo del crack da 50 miliardi del vecchio Bernie. Vittorio Malagutti