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 2008  dicembre 20 Sabato calendario

PARTO IN CASA, PIU’ RICHIESTE MA IN ITALIA E’ UN PRIVILEGIO

C’era una volta il parto in casa. Il telefono dell’ostetrica squillava a ogni ora del giorno e della notte. E siccome il cellulare non esisteva, si svegliava tutta la famiglia. Pasqua o Natale, bisognava correre e basta. «Spinga, spinga», incitava la levatrice. E di là le amiche preparavano il caffè per il marito, mentre i figli attendevano un po’ preoccupati il fratellino nuovo. Si nasceva così, nel letto della mamma. Cascasse il mondo, l’ultima parola ce l’aveva lei, l’ostetrica, sacerdotessa incontrastata, meraviglioso vulcano di energia capace di far partorire intere generazioni, le stesse bambine diventate poi donne.
C’era una volta, e c’è ancora. Rivisitata e corretta, la maieutica a domicilio. Con qualche accorgimento. Prima la levatrice faceva tutto da sola, adesso sono in due. Prima non c’era l’ospedale vicino, ora dista al massimo mezz’ora. E se prima era quasi una necessità (usava così), oggi, nel 2008, il parto in casa è un atto di volontà. In crescita. Lo dicono i dati nazionali elaborati da Maurizio Bonati, dell’Istituto Mario Negri di Milano: «I parti a domicilio rappresentano lo 0,2% del totale, tra i mille e i 1.500 l’anno, con il record negativo della Sicilia (0,04%) e quello positivo dell’Emilia Romagna (0,85%)». Gli episodi di depressione post partum sono rarissimi, quattro su mille, e lievi. Chi sceglie di far nascere il figlio a casa ha tra i 30 e i 40 anni, cultura medio-superiore, in genere è pluripara con una precedente esperienza ospedaliera non troppo felice. Soprattutto, è una donna coraggiosa.
Le resistenze
«La gravidanza non è una malattia. Eppure c’è una forte paura a fare una scelta controcorrente. Non esiste consenso sociale su questo tema, se lo dici ti rispondono: ma sei matta? Mentre è più folle mettersi in auto il 15 agosto », spiega Marta Campiotti, 52 anni e 500 figli (fatti nascere), presidente del Coordinamento nazionale delle ostetriche che eseguono il parto a domicilio, una quarantina nel Centronord, zero al Sud ( www.nascereacasa.it).
«Il nostro riferimento storico è il Protocollo di Klostermann. Malgrado sia datato, riassume l’essenziale: se una donna è sana, se il bimbo non è podalico, se non c’è sproporzione tra peso del nascituro e mamma, se il feto è unico, dopo la 37ª e prima della 43ª settimana di gravidanza il parto può svolgersi in modo naturale». Di più. Piera Maghella, educatrice perinatale del Mipa, il Movimento internazionale del parto attivo ( www.mipaonline.com),
cita ricerche che comparano il parto in un buon ospedale con quello programmato in casa: «Il secondo è altrettanto sicuro per la mamma, ma è molto più sicuro per il neonato ». Lei, che ha fatto nascere nel suo letto tre dei quattro figli, destinando all’ultima la vasca da bagno, non ha dubbi su quale sia il deterrente principale: « l’idea che possa essere pericoloso e il fatto che sia a pagamento».
Motivazioni e regole
Basterebbe poter garantire il diritto alla scelta. Cosa che ha tentato di fare l’onorevole ds Alberta De Simone il 4 luglio 2001 con una proposta di legge «per tutelare e promuovere il parto a domicilio e valorizzare la nascita». Niente. La più lungimirante fu la Lombardia, fissando le linee guida per l’umanizzazione del parto con la legge regionale numero 16 dell’87. «Ma non è stata mai applicata. Eppure si tratterebbe semplicemente di spostare i fondi già previsti, senza aggiungere un euro», interviene Sabina Pastura, cinquant’anni ben portati, fondatrice della Scuola di arte ostetrica di Firenze e pilastro della Lunanuova di Milano ( www.lalunanuova.it), che offre assistenza alle aspiranti puerpere. I costi sono di due-tremila euro per parto, e includono la reperibilità delle ostetriche tre settimane prima della nascita e tre settimane dopo. «Chi rimane a casa lo fa per una scelta culturale, più che economica. Non intende rinunciare all’intimità con il partner e con gli altri figli, a una modalità più fluida e raccolta di questo evento straordinario. Ricordo un parto, il marito era camionista: nella camera da letto c’erano tutti e sette i figli che respiravano con la madre».
Le amministrazioni che riconoscono un rimborso spese sono l’Emilia Romagna (850 euro circa), il Piemonte (800 euro, con la possibilità di farsi assistere a casa dalle ostetriche del Sant’Anna), Trento e Bolzano. Esistono poi felici iniziative autonome delle singole Asl, come quella di Parma: qui le ostetriche del consultorio lavorano anche a domicilio, e l’assistenza è gratuita. Dal 2001, l’anno di attivazione del progetto, al 2007, hanno scelto questa opzione 118 donne, 98 delle quali sono riuscite a partorire nel loro letto (il calcolo è di Teresa Simonazzi De Lorenzo, laureanda in Ostetricia alla Statale di Milano).
Medici contro
Spesso il sostegno manca proprio da parte del ginecologo. «Quando una gravidanza decorre senza problemi non c’è motivo di andare all’ospedale. Purtroppo i primi nemici di questa soluzione sono gli stessi dottori, in Italia c’è una medicalizzazione incredibile: la media dei cesarei è del 38%, con punte del 59% in Campania e del 50% in Sicilia, mentre l’Oms raccomanda il 10-15 per cento», protesta Giuseppe Battagliarin, ginecologo del Buzzi di Milano (3.600 parti l’anno) e garante di una delle tre Case di maternità in Italia gestite unicamente dalle ostetriche, strutture alternative dove far nascere il proprio figlio in una dimensione familiare (si trovano a Milano, Induno Olona e Bologna). L’Istat calcola che l’87% delle donne preferisce «nettamente partorire in modo spontaneo ». A loro soltanto spetta scegliere dove.

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«IN VASCA DA BAGNO TRA LE CANDELE, POI E’ NATO COSIMO» -
Pietro è nato quattro anni fa dopo 27 ore di travaglio. Tutto era pronto in casa. Ma ci sono state complicazioni. Irene Maffi (nella foto con i figli) è corsa con le due ostetriche all’ospedale. A mezzanotte e mezzo è arrivata al Buzzi. Alle 7.30 ha partorito. A mezzogiorno era già fuori. «Volevano dare un antibiotico a me e al bambino, non c’era alcun bisogno. Ho firmato e me ne sono andata», racconta per telefono da Losanna, dove insegna Antropologia all’università. Trentasette anni, milanese, ci ha riprovato con il secondo. «Cosimo è nato dieci mesi fa. Mi sono dovuta organizzare con l’appartamento di mia mamma, a Milano, perché vivevo già a Losanna. La ginecologa aveva calcolato male il tempo, quindi il bambino si è preso altre due settimane. nato l’ultimo giorno oltre il quale le ostetriche, Sara Veltro e Paola Scavello, non mi avrebbero più assistita a domicilio». Il travaglio questa volta lo ha fatto nella vasca da bagno. «Per tre ore sono stata a mollo. Ero circondata dalle candele, sentivo meno il dolore. Ogni tanto mi addormentavo per un minuto o due e questo mi faceva recuperare le energie».
«Le mie amiche mi dicevano: "Come sei coraggiosa tu...". Loro avrebbero desiderato fare come me, ma avevano i mariti in totale opposizione». E infatti nel caso di Irene è stato fondamentale il sostegno di Arnaldo Genitrini, il marito, fotografo. Il problema, fa notare lei, è che molti considerano la gravidanza una malattia. «Mentre io sono contraria alla eccessiva medicalizzazione del parto, la trovo sbagliata in una società dove siamo seguitissimi, viviamo in condizioni igieniche straordinarie, non c’è motivo di ricorrere automaticamente all’ospedale. Certo, se c’è bisogno ben venga. Ma in caso contrario, perché?». Razionalmente non c’è un legame, ma Irene Maffi è nata in una clinica. «Mia madre è avvocato. Rimase incinta giovane, a 23 anni. Fu affidata a un medico che le fece il cesareo per poter trascorrere il week end a casa. Risultato: restò rimbambita per tre giorni e non riuscì più ad allattare. Non posso dire che la cosa mi abbia segnata perché fino a poco tempo fa neanche sapevo come ero nata. Però sono convinta del fatto che le azioni ospedaliere provochino effetti iatrogeni».
In Olanda i parti in casa sono il 30 per cento. In Gran Bretagna il 2 per cento. Negli Stati Uniti l’1 per cento. In Italia lo 0,2. Non è soltanto un problema di costi. «La donna tende a non avere fiducia nelle sue possibilità. Se decidi di farlo vieni trattato da pazzo o da criminale. E poi c’è questo interventismo ingiustificato che disturba il procedimento naturale. Vedi l’episiotomia: tutti la fanno in automatico. Mentre il più delle volte stare a guardare è la cosa migliore, il corpo sa benissimo cosa fare», spiega l’antropologa, che non ha avuto paura di fare la sua scelta controcorrente. «Con dei medici in casa non è stato facile neppure per me. Ma io e mio marito abbiamo sempre avuto l’idea che il parto fosse una cosa solo nostra, da condividere con la levatrice. Quello dell’ostetrica non è neanche un mestiere, è un insieme di cose, un modo di essere e di avere relazioni con le altre persone. Insomma, un’arte».