Giancarlo Meloni, Libero 19/12/2008, pagina 1-32, 19 dicembre 2008
Libero, venerdì 19 dicembre 2008 Su fisici e chimici, quelli importanti, abbiamo sentito dire di tutto
Libero, venerdì 19 dicembre 2008 Su fisici e chimici, quelli importanti, abbiamo sentito dire di tutto. Ma dei grandi matematici cosa sappiamo? Poco, niente. Spesso neanche nomi e cognomi. Sono più numerosi di quanto immaginiamo ma vivono appartati, come nel ghetto. A fargli un po’ di réclame, per loro non c’è neanche il ”Nobel”. Colpa di un incauto giovanotto della ”confraternita” che invece di limitare le sue incursioni alle seducenti serie dei numeri primi, immaginari razionali negativi o naturali le estese all’appetitoso letto di Madame Annelore, giovane consorte del ricchissimo inventore della dinamite. Rancoroso e livoroso come tutti i cornuti, Alfred non dimenticò l’offesa e bandì dall’opulento ”banchetto” dei Premi di Stoccolma la pur benemerita corporazione che finì per trasformarsi in una specie di società segreta, o giù di lì. Anche perché le scoperte dei matematici non si collegano mai immediatamente, che so, con una bomba atomica che esplode o con uno sbarco sulla Luna che sbalordisce. Personaggi remoti insomma questi scienziati, circondati da una zona d’aria ghiaccia e chiusi nella rigida corazza di un logicismo poco disposto a transazioni e compromessi concettuali. Perché la matematica è diversa dalle altre scienze, le quali si fondano su ipotesi verificate sperimentalmente che, se confutate, vengono sostituite da nuove ipotesi; in essa gli enunciati sono sempre assoluti e una volta che un teorema risulta dimostrato è per sempre, senza spazio per alterazioni o modifiche. Rigore e sudore, ingegno e passione, niente quattrini, poca popolarità. Come mai, uno si chiede, i matematici sono ugualmente tanti? Facile spiegarlo. A differenza di chimici e fisici, per lavorare e produrre non hanno bisogno di laboratori, di attrezzature sofisticate e costose, di cospicue risorse economiche. Carta, matita e lavagna. Basta e avanza. Giusto le lavagne. Non tutti lo sanno, ma quando questi studiosi si riuniscono, sia un hotel, Istituto scientifico o foresteria di Accademia, puntualmente tutti i quadri si involano dalle pareti, rimpiazzati da altrettante lavagne; anche negli ascensori, lungo le scale, perfino nei bagni. Ovunque. L’intuizione vincente spesso è un lampo e devi fissarla al volo, chiariscono gli addetti ai lavori. formule a memoria Quando ero al liceo, il professore di matematica ripeteva spesso un assioma: le formule dei teoremi si imparano a memoria come l’Avemaria. ”In ogni triangolo rettangolo il quadrato costruito sui cateti equivale a quello dell’ipotenusa”. Ce l’ho ancora sottopelle, per ricordarlo a occhi chiusi; quasi un refrain. Eppure su questo refrain si basa quasi tutta la scienza dei numeri, parte della fisica sperimentale e della tecnologia moderna. La scoperta di Pitagora, nel 540 a.C., apparve subito così importante che vennero sacrificati cento buoi per ringraziare gli dei. Fu una delle più rilevanti conquiste nella storia della civiltà. x2 + y2 = z2: fondamentale, universale equazione che però non ha soluzioni in numeri interi per esponenti maggiori di 2. Chi lo ha detto? Il signor Pierre de Fermat, francese del XVII secolo, genio del calcolo e delle più diaboliche stramberie. Lasciò scritto (1637), in margine alla copia di un libro, di aver dimostrato l’assunto ma che non ne riportava la prova ”per mancanza di spazio”! Quando non doveva condannare a morte qualche prete o qualche frate, De Fermat, giudice supremo della Corte sovrana del Parlamento di Tolosa, si dedicava al suo passatempo preferito: scoprire le regole che descrivono precisamente le leggi del caso (teoria della probabilità), e i principî che presiedono a tutti i giochi d’azzardo (con Blaise Pascal). Lavorava anche a stabilire le basi del calcolo differenziale, per troppo tempo attribuito esclusivamente a Newton, mentre si divertiva a impostare eleganti e complicati teoremi che poi comunicava ai colleghi senza la dimostrazione, come per provocarli, sfidarli a trovare la soluzione. L’invenzione del calcolo differenziale e della teoria delle probabilità sarebbero più che sufficienti ad assegnare a Fermat un posto nel pantheon delle celebrità scientifiche, ma il suo maggiore risultato è stato in un altro settore della matematica. Mentre le equazioni infinitesimali sono state usate per inviare i razzi sulla Luna e la Probabilità è stata impiegata nella crittografia (il caso ”Enigma”, nel secondo conflitto mondiale, è un esempio di guerra all’ultimo calcolo tra i matematici tedeschi e quelli inglesi), il più grande amore di Fermat fu per un tema di apparente inutilità, la teoria dei numeri. Ossessionato dall’idea di capirne le proprietà e i segreti, egli comincia così a lavorare su un corpo di conoscenze che affonda le sue origini nella matematica dell’antica Grecia e in particolare negli studi e nelle intuizioni di Pitagora, vetta himalayana di un’epoca irripetibile. la trappola Purtroppo, come la maggior parte dei colleghi, e anche dei fisici, Pitagora aveva un debole per le lolite. E siccome il demonio la sa sempre lunga, gli tese una trappola coi fiocchi. Nel mezzo di un torrido mese di luglio, a Crotone, il Maestro di Samo vide arrivare nella sua già famosa Scuola, che contava anche molte ragazze di ingegno vivace, una calabrese pallida e diafana, dalla lunga chioma nera. Secondo i maligni non aveva talento, ma era in compenso dotata di una strepitosa bellezza. Pitagora la sposò, e fu l’inizio della sua rovina. Lei si chiamava Teano ed era figlia di Milone, l’uomo più ricco e potente della città, oltre che atleta imbattibile, dodici volte vincitore dei Giochi Olimpici. Teano, sposina intraprendente più che studentessa intelligente, si lascia corteggiare da un condiscepolo, Ippaso, entrato in conflitto col maestro per causa dei numeri irrazionali: Ippaso, a ragione, li ammette, Pitagora li nega. Geloso dell’allievo che, forse ricambiato, ama la bella Teano, il vecchio scienziato, del tutto incapace di riconoscere qualsiasi torto, lo fa uccidere. Un’altra tragedia è però in agguato. Meno di tre anni dopo, conclusa vittoriosamente la guerra contro Sibari, a Crotone scoppia una rivolta: per la spartizione del bottino e dei territori conquistati, che il popolo non vorrebbe assegnati in massima parte a Milone e all’élite pitagorica. La folla assalta la splendida dimora di Milone, dove ha sede la famosa Scuola di matematica. Sprangate porte e finestre per impedire ogni fuga, si appicca il fuoco. Pitagora muore con moltissimi discepoli (490 a.C.). Una fine orribile, non molto diversa da quella di Ipazia, geniale studiosa del quarto secolo dopo Cristo, nota per essere la più brava risolutrice di teoremi del suo tempo, condannata a morte dal patriarca di Alessandria Cirillo a causa del suo eccessivo razionalismo laico e bruciata, ancora viva, dopo essere stata denudata e squartata. la prima università Successivamente all’uccisione del padre della logica numerica, il concetto di rigore e di dimostrazione matematica si diffonde rapidamente attraverso il mondo civilizzato e, due secoli dopo il massacro di Crotone, il centro degli studi di matrice pitagorica rinasce nella città di Alessandria che, con l’ascesa al trono di Tolomeo I, diventa la sede della prima università del mondo. Anche della celebre Biblioteca, che ogni giorno si ingrandiva grazie a un ingegnoso sistema di ”rapine” programmate ai danni dei viaggiatori che si recavano nella metropoli egizia a cui venivano confiscati tutti i manoscritti eventualmente in loro possesso, consegnati a una moltitudine di scribi e quindi copiati; l’originale veniva trattenuto e il duplicato restituito al proprietario. Si tratta forse della più antica, forse l’unica, rapina di libri di tutta la storia. Nei secoli successivi all’ultima distruzione della Biblioteca di Alessandria (642 d.C.) la Teoria dei numeri non si era più sviluppata. Dal barbarico rogo si erano però salvati alcuni preziosi volumi, tra cui ”L’Aritmetica” di Diofanto, altro campione della tradizione matematica greca. Questo libro, arrivato chissàcome in Occidente, finisce sulla scrivania di Pierre de Fermat. Mentre studia il secondo capitolo dell’Aritmetica, Fermat si imbatte in tutta una serie di osservazioni, di problematiche e soluzioni che riguardano il teorema di Pitagora e le terne pitagoriche. Via via comincia a ”giocare” con la ben nota equazione, cercando di scoprire qualcosa che fosse sfuggito ai greci. Improvvisamente, con un lampo di genialità che lo avrebbe reso immortale, gli viene di formulare una nuova espressione che, benché simile a quella di Pitagora, non ammette alcuna soluzione (x3 + y3 = z3). La modifica ulteriormente elevandola a potenze superiori al 3 (xn + yn = zn) e intuisce che non esistono numeri interi, da 2 a infinito, che permettano di trovare almeno una soluzione. una enunciazione straordinaria, che Fermat reputa di poter dimostrare, tanto da scribacchiare sul margine del volume di Diofanto il commento-beffa che avrebbe ossessionato per tre secoli intere generazioni di matematici: «Dispongo di una meravigliosa dimostrazione di questo teorema che non può essere contenuta nel margine troppo stretto di questa pagina». Un esempio significativo del carattere bizzarro e irritante di Fermat, una sfida al mondo (ci sarà mai uno scienziato bravo come me?) che ha eluso gli sforzi di molte generazioni di matematici professionisti, un problema di enorme difficoltà che ha sedotto le più grandi menti del Pianeta dispensando disperazione, suicidi, duelli. Un enigma che ha oltrepassato il mondo chiuso della scienza ed è entrato persino nella letteratura coi racconti ”Patti col Diavolo” (1958) dello scrittore americano Arthur Porges. Nel faustiano ”Il demonio e Simon Flagg”, il protagonista domanda a Satana: «L’ultimo teorema di Fermat è corretto?». Satana non risponde, scompare, fa il giro del mondo per assimilare ogni elemento del sapere matematico, ma, scaduto il tempo di una giornata, deve ammettere di non saper rispondere e paga a Flagg i centomila dollari della scommessa. La provocatoria affermazione di Fermat («dispongo di una meravigliosa dimostrazione…») colpisce e inquieta anche un ragazzino prodigio della seconda metà del ”900, Andrew Wiles (nato a Cambridge nel 1953, ora docente a Princeton) che la legge nella biblioteca Milton Road della sua città. Fermat ha scritto la verità o ha mentito? Se ha detto il vero io devo e potrò scoprirne la dimostrazione. Una ossessione, un incubo che per quasi vent’anni intriga Andrew e ne mette in pericolo la salute. Non a caso Porges nella sua opera narrativa è arrivato a teorizzare che la matematica sia uno strumento del Male attraverso cui il demonio entra nell’essere umano fino a indurlo alla rovina, alla follia. Si può morire per un teorema? Wiles ha corso questo rischio per risolvere definitivamente quello che è stato chiamato L’Ultimo Teorema di Fermat. Chi lo ha incontrato, con la perenne, benevola espressione distaccata e schiva sul volto dimesso, non può fare a meno di chiedersi come ha fatto quest’uomo, che nessuno riesce mai a far ridere e che non sa far sorridere nessuno, a risolvere il più famigerato problema della teoria dei numeri di ogni tempo. E ci avevano già provato, ma senza significativi risultati, matematici come Lagrange e Cardano, Pascal, Cartesio, Eulero, Gauss, Sofia Germain (la più vicina al traguardo) Yutaka e Shimura. Badate: su Wiles, che pure ha vissuto un’esistenza complicata e intricata, non si riferiscono mai aneddoti, battute di spirito, episodi curiosi. Intendiamoci, le indiscrezioni che si attribuiscono ai grandi scienziati, in genere sono inventate di sana pianta; ma si accettano per roba loro e si registrano come tali. Ed è giusto, perché hanno questo di vero, anche quando sono false: che coloro a cui si richiamano in qualche modo ci si ritrovano. Il grande matematico di Cambridge invece non ispira nulla di tutto ciò. Niente gli si addice, soltanto la nuda realtà e la nuda verità, che di spiritoso hanno ben poco. Quando decide di dedicarsi unicamente all’Ultimo Teorema di Fermat, di realizzare il suo sogno di ragazzo, è appena iniziato il 1987. Andrew perlustra la sua casa, scopre una soffitta silenziosa e appartata, e ci si sistema a bivacco, convinto di doverci passare un buon numero di mesi. Ci rimarrà chiuso 7 anni! In seguito lascia la cattedra all’Università di Princeton, evita il più possibile di incontrare amici e colleghi. «Lavoro alle tangenti ellittiche», risponde a chi gli fa domande imbarazzanti. E di tutte le bugie che deve inventare per convincere gli interlocutori che non sta lavorando al Teorema di Fermat, non è neanche la più sfacciata. il tiro al piccione Perché tanto mistero?, uno si chiede. Perché non c’è matematico che non spari addosso agli altri appena ha il sospetto che questi accennino a prendere il volo. Una specie di tiro al piccione con ogni mezzo, lecito e illecito. Wiles conosce la situazione, quindi solo la moglie, Nada, sa come stanno le cose. Sette anni di studio e di calcoli su quel teorema. Anni di isolamento e di pettegolezzi: quelle polemiche da retrobottega scientifica che lo perseguitano fino all’ultimo giorno prima della vittoria come un ronzio fastidioso che gli turba le poche ore di sonno. Finalmente, il 13 giugno 1993, la luce enigmatica e misteriosa dei numeri dà a Wiles l’illusione di avercela fatta. Le Monde titola in prima pagina ”Le Théorème de Fermat enfin résolu”, il New York Times: ”Eureka! Finalmente svelato un secolare mistero». Wiles presenta il manoscritto con la dimostrazione ai sei giudici che hanno il compito di verificarla. una argomentazione gigantesca, costruita su migliaia di calcoli tenuti insieme da decine di migliaia di nessi logici. Un arsenale stupefacente di nuove tecniche e strumenti matematici molti dei quali diventano subito parte integrante dell’ingegneria e della fisica contemporanee. l’errore Se però uno solo dei calcoli risultasse errato, l’intera dimostrazione non avrebbe valore. E un errore in realtà c’è. Nick Katz, uno dei giudici, segnala una lacuna all’autore che deve ammettere lo sbaglio. Spera di rimediare in pochi giorni, ma le cose vanno diversamente. Intanto i grandi giornali si gettano di nuovo sulla vicenda e trasformano in un bluff quello che avrebbe dovuto essere il momento più grandioso della storia della matematica. Ma Andrew non si arrende. Si chiude di nuovo nella soffitta e comincia a annusare i dubbi avanzati da Katz e i probabili errori come un cane da caccia fiuta la selvaggina, pur senza vederla. convinto di farcela. Ancora un po’ di tempo, un altro poco… Passano dodici, quattordici mesi. fatta. Un lunedì mattina, il 19 settembre 1994, con una brillante intuizione Wiles trova l’errore e diventa il matematico più famoso del mondo. La rivista People lo inserisce nell’elenco delle 25 personalità ”più affascinanti dell’anno” e una catena internazionale d’abbigliamento chiede al genio dalle maniere gentili di firmare la sua linea per uomo. Giancarlo Meloni