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 2008  dicembre 19 Venerdì calendario

BASTA, IO NON SONO UNA SCRITTRICE NERA - ALESSANDRA FARKAS PER IL CDS

PRINCETON (New Jersey) – Al ristorante Lahiere’s, nel cuore di Princeton, docenti dai titoli altisonanti fanno la spola al suo tavolo, perennemente riservato nell’angolo migliore della sala, per rendere omaggio alla collega premio Nobel, autrice di romanzi considerati pietre miliari della letteratura americana. Toni Morrison li congeda garbatamente con un cenno della sua splendida capigliatura argentea, prima di ordinare «il solito »: ostriche fritte e vodka on the rocks.
Il suo nuovo libro, A Mercy, ambientato nel 1680, alla nascita della nazione – quando lo schiavismo era solo all’inizio e le Americhe erano terra di contrasti etnici, religiosi e politici – ha ricevuto osannanti recensioni. Sul New York Times,
Michiko Kakutani l’ha definito «una gemma scintillante» e «con Amatissima, uno dei suoi lavori indimenticabili». Secondo il Washington Post «è un capolavoro di poesia, storia e acume psicologico, da non perdere».
In Italia, dove sarà pubblicato da Frassinelli il prossimo 5 maggio, la Morrison si augura che il titolo resti immutato. «Non è un caso che abbia usato l’articolo indeterminativo prima del sostantivo », tiene a precisare. «Volevo distinguerlo dalla misericordia di Dio, mercy è un atto umano di clemenza:
a mercy, per l’appunto». Il libro inizia due anni prima del processo contro le streghe di Salem, «quando l’America era ancora una terra di conquista aperta a chiunque volesse espugnarla». «Volevo capire come poteva sentirsi una schiava nera nel periodo di transizione in cui la schiavitù era normale, ma non il razzismo», racconta. «Dagli antichi egizi, ai greci, ai romani, ogni civiltà grande e piccola è stata edificata dagli schiavi. Chiamati con nomi diversi: contadini, peones, servi ». La protagonista, Florens, una ragazzina «con le mani da schiava e i piedi di una signora portoghese », scopre di essere disprezzata non per razzismo in senso stretto, ma perché i cacciatori di streghe pensano che Satana sia l’uomo nero.
Il colore della pelle non era sinonimo d’inferiorità ma, al contrario, «era associato ad un concetto di terribile e temibile potenza». Eppure sarà proprio l’America del XVII secolo a coniugare per la prima volta razzismo e schiavitù. «Lo stratagemma del divide et impera – lo chiama la Morrison – ideato dai proprietari delle piantagioni per aizzare i poveri bianchi contro i poveri neri. Arginando il rischio di una ribellione organizzata degli oppressi». Gli immigranti europei che allora approdavano in America erano indentured servants,
«servi debitori», legati ai padroni da un contratto che poteva essere reciso o prorogato a loro piacimento e senza preavviso. «Il vantaggio degli indentured rispetto agli schiavi africani era il colore della pelle, che permetteva loro di fuggire senza essere scoperti», racconta. «In realtà il destino dei due gruppi era pressoché identico ed è per questo che il loro tentativo di allearsi fu violentemente interrotto». Nel libro, la scrittrice rivisita la cosiddetta ribellione di Bacon (dal nome del suo leader Nathaniel Bacon) del 1676, quando la rabbia delle classi subalterne spinse schiavi neri e servi bianchi ad assumere per diversi mesi il controllo della Virginia, finché non furono sconfitti da una forza navale inviata dall’Inghilterra. Dopo quest’insurrezione l’impiego di schiavi africani aumentò considerevolmente, in parte per il timore dei proprietari di un’altra rivolta, così i neri sostituirono i servi a contratto inglesi come principale fonte di manodopera in Virginia.
«La rivolta di Bacon spinse le autorità a modificare la legge, per consentire ai bianchi di uccidere qualsiasi nero senza motivo. Ciò consegnava alla servitù debitoria il potere di vita e di morte sui neri; anche se appartenevano alla stessa classe sociale ». Il privilegio conferito dalla pelle bianca, secondo la Morrison, è ancora il fattore chiave nella politica degli Stati del Sud. «Ti consente di mantenere enormi sacche di poveri bianchi sfruttati che imputano le loro disgrazie ai neri. O ai messicani, i nuovi "cattivi". E così mentre la classe lavoratrice si scanna, le corporation fanno affari d’oro».
La situazione in Europa non è migliore, «solo diversa». Nel novembre del 2006, subito dopo i tumulti di Parigi, la Morrison guidò un simposio al Louvre per discutere di emigrazione ed esilio con i giovani emarginati delle banlieue. Un’occasione per ponderare la differenza fra ghetti europei e ghetti americani. «Gli artisti neri che ho incontrato in Francia, Turchia e Italia sono molto più politicizzati dei nostri. Purtroppo la nostra cultura nera è stata scippata, diventando un prodotto ad uso e consumo dei ragazzi bianchi dei sobborghi. Nessun nero comprerebbe quella spazzatura».
Ma anche l’Europa ha le sue pecche, a cominciare dal Nobel. «È bizzarro che l’abbia vinto Dario Fo e non Edward Albee, Arthur Miller o Tennessee Williams». Jean-Marie Gustave Le Clézio? «Nessuno qui ne aveva mai sentito parlare. Ma la colpa è nostra che non traduciamo da altre lingue Tennessee Williams, John Cheever, Dario Fo e siamo insulari». Quando lo vinse lei, il premio, qualcuno la ribattezzò «la regina della letteratura nera». «Sciocco e assurdo», ribatte l’autrice, «Se io scrivo di afro-americani, i critici mi definiscono
black writer, se John Cheever scrive di bianchi del New England, la discussione s’impronta sulla complessità del racconto. Spero che un giorno la letteratura non sarà più divisa tra nera e bianca. Perché sono abbastanza stufa di essere considerata una sociologa invece di una letterata».
All’indomani del Nobel, l’autore afro-americano di Oxherding Tale, Charles Johnson, l’accusò d’essere «Il trionfo del politicamente corretto». «A 77 anni certi commenti non mi sfiorano. Ciò che mi fa male, oggi, sono i problemi veri, come la morte e la malattia, non la cattiveria di qualcuno che non apprezza il mio lavoro». Dietro certi attacchi, la Morrison intravede la paura e la gelosia di alcuni settori maschili della black America
contro le scrittrici afro-americane. «Ci accusarono di essere favorite rispetto ai nostri uomini. Eppure per tutta la nostra storia sono stati loro ad affermarsi: da Richard Wright a James Baldwin, da Ralph Waldo Ellison a W.E.B. Du Bois». Ma la superiorità culturale delle donne afro-americane non è solo un mito. «Un tempo, se una famiglia nera doveva mandare un figlio al college, sceglieva le femmine perché i maschi rischiavano di essere uccisi non appena avevano successo. Il primo linciaggio cui assistette mio padre fu quello di un uomo d’affari nero della Georgia».
Intere generazioni di donne afro-americane si sono fatte strada nelle università quando le loro coetanee bianche ne erano escluse. «Le nere istruite non erano una minaccia per nessuno – afferma – e così io mi sono trovata in una posizione privilegiata, mentre le mie compagne italiane ed ebree dovevano lottare per non finire chiuse in convento o in un matrimonio combinato». Ecco perché oggi è facile trovare una famiglia nera con cinque donne laureate. «Se i nostri uomini sono meno istruiti è perché la comunità li ha protetti». La Morrison aveva dodici anni quando cominciò a leggere Nabokov e Jane Austen. «Non ricordo la mia vita prima dei libri. Fu mia sorella Lois, di due anni più vecchia di me, a introdurmi alla lettura, prima delle elementari; a scuola c’erano solo due persone che sapevano leggere: io e la maestra ». A casa Morrison i libri erano sacri. «Nonno si vantava d’aver letto la Bibbia da cima a fondo tre volte. Fino all’Emancipation Proclamation
chiunque insegnasse l’abbecedario ai neri rischiava il carcere». L’odierna indifferenza per la lettura la indigna. «Penso ai miei antenati che tenevano scuole segrete nei boschi, sedendosi su tronchi d’albero per insegnare l’alfabeto ai figli».
Nel 1963, a 32 anni, dopo il master in inglese alla Cornell University, ateneo dell’Ivy League, la Morrison fu assunta come editor alla prestigiosa Random House di New York. «Accettai, decisa a scoprire i grandi talenti neri che nessun agente toccava, da Toni Cade Bambara a Henry Dumas, per far capire che non esisteva solo James Baldwin ». Imparò ben presto che, se avesse pubblicato quattro libri di altrettanti autori neri in una stagione, i critici li avrebbero recensiti tutti «in un pastone unico».
Tra i suoi autori figurano Muhammad Ali ed Angela Davis. «Angela è un’intellettuale ed una persona meravigliosa. La nostra relazione professionale ha dato vita a un’amicizia genuina basata sul mutuo rispetto: una vera rarità». Tra i nuovi talenti afro-americani, la Morrison cita scrittori come Colson Whitehead, Edwidge Danticat ed Edward P. Jones. «Purtroppo – precisa – l’esodo dei più bravi verso Hollywood, dove ci sono soldi, è inesorabile ». Dalla Mecca del cinema viene una delle sue grandi amiche, Oprah Winfrey, leggendaria animatrice del club letterario più potente d’America. «Oprah ha sempre promosso il mio lavoro e io ho beneficiato enormemente dalla sua sponsorship
», tiene a precisare. «Mi piace perché è una donna generosa e ottimista». A differenza di Oprah, battista devota, la Morrison è cattolica.
«Mi convertii a 10 anni e sono felice di averlo fatto perché nel cattolicesimo puoi incorporare il misticismo delle religioni africane dei nostri avi. Le nostre chiese sono luoghi più privati e meditativi – spiega – e se hai qualcosa da dire lo fai in confessione, non in un teatro aperto». E se la maggior parte dei neri sono protestanti, lo è soltanto «perché lo erano gli abolizionisti», e la Chiesa battista «fu la prima ad ammettere i neri in paradiso».
Dopo il successo del libretto d’opera per Margaret Garner, la Morrison sta collaborando con Peter Sellars a una nuova opera lirica top secret
che l’autrice spera di inaugurare alla Scala di Milano. «Dirò solo che si tratta del remake di un grande classico», afferma. «Adoro l’Italia perché non è pretenziosa come la Francia e ogni volta che ci vado sono accolta da folle enormi e calorose. Amo la Frassinelli e Carla Tanzi, l’editor cui ho spedito il manoscritto per prima perché tenevo molto al suo parere. Che è stato positivo».
La Morrison ha appena iniziato «a pensare a un nuovo libro», ancora allo stato embrionale. «Racconta la vita degli afro-americani nei paesini del Centro-Sud, durante gli anni Cinquanta, quando i soldati neri tornavano dalla Corea e venivano linciati – spiega ”, mentre in Stati come l’Oklahoma gli editori afro-americani pubblicavano addirittura quindici quotidiani neri. un capitolo della nostra storia che nessuno conosce».