Federico Rampini, la Repubblica 19/12/2008, 19 dicembre 2008
Federico Rampini - Era fiera della sua nuova fama mondiale, la città di Wuxi. Grazie all´ascesa dell´azienda Suntech Power questo borgo nella provincia costiera del Jiangsu, a due ore di auto da Shanghai, era stato battezzato la capitale mondiale dell´energia solare
Federico Rampini - Era fiera della sua nuova fama mondiale, la città di Wuxi. Grazie all´ascesa dell´azienda Suntech Power questo borgo nella provincia costiera del Jiangsu, a due ore di auto da Shanghai, era stato battezzato la capitale mondiale dell´energia solare. Nei pannelli fotovoltaici la Repubblica Popolare si è imposta come il primo esportatore mondiale, sorpassando sul fotofinish Germania e Giappone. E la Suntech era leader globale nel suo settore. Ma ieri in uno dei 48 reparti di produzione dell´azienda era visibile solo la guardia giurata. Ai tecnici e agli operai è giunto l´ordine di presentarsi un giorno alla settimana. La metà degli stabilimenti Suntech sono chiusi, duemila dipendenti licenziati. Tra i banchieri di Shanghai circolano voci di una possibile bancarotta. Da qualche settimana nelle oscillazioni frenetiche della Borsa cinese, che alterna ribassi per l´allarme-deflazione e rialzi per le speranze sulla manovra statale anti-crisi, l´unico settore che è andato sempre giù è il solare. Insieme alla Suntech Power anche SunPower, JA Solar, Ldk Solar, Trina Solar (nomi inglesi per facilitare l´export, ma proprietari cinesi) sono crollate inesorabilmente. Il presidente di Solar Enertech, Leo Young, evoca un´analogia sinistra: «Per il solare è giunto il giorno del giudizio come accadde per la bolla di Internet». Stiamo già abbandonando l´energia solare? Questo è il verdetto che arriva dalla Cina, il termometro più sensibile di quel che accade qui da noi. Perché se la Germania ha il maggior numero di centrali solari al mondo installate sul suo territorio, nella Repubblica Popolare invece la produzione di pannelli fotovoltaici è per il 95% destinata all´export, verso l´America e soprattutto l´Europa. Il crac del solare made in China è colpa nostra. In pochi mesi Wuxi è stata disertata dalle delegazioni di businessmen occidentali, hedge fund e banchieri d´affari, un tempo vogliosi di saltare sul carro in corsa delle fonti alternative. Nel 2007 la Cina era diventata l´epicentro di questa corsa all´"oro verde", l´energia pulita e rinnovabile che non emette un solo grammo di Co2 nell´atmosfera. L´anno scorso dalla Silicon Valley californiana e da Londra i fondi di venture capital avevano investito 2,8 miliardi di dollari nel solare cinese. Alla fine del 2007 per rispondere a questa irresistibile attrazione la Suntech aveva aperto per la prima volta una filiale a San Francisco. La produzione di pannelli fotovoltaici made in China era balzata fino a 1,088 gigawatt. Dei sedici maggiori fabbricanti mondiali di pannelli fotovoltaici, sei sono basati nella Repubblica Popolare e dietro questi grandi ci sono altri 400 piccoli produttori locali. Il boom del solare faceva parte di un trend più generale: a fine 2007 in Cina si contavano trentamila imprese attive nel business ambientale, con tre milioni di dipendenti e 700 miliardi di yuan di fatturato. Anche se nello stesso anno il gigante asiatico si era distinto per un sorpasso nefasto, togliendo all´America il primato mondiale delle emissioni di Co2, c´era un´altra Cina, la parte più avanzata del suo capitalismo, che aveva colto la nuova opportunità delle tecnologie verdi. L´evoluzione piaceva ai leader politici. Il presidente Hu Jintao e il premier Wen Jiabao, pur senza volersi legare le mani con gli impegni di Kyoto, negli ultimi due anni hanno cominciato ad aprire gli occhi davanti agli immensi danni di una crescita economica energivora e terribilmente inquinante. Il termine "sviluppo compatibile" è entrato nei discorsi ufficiali dei dirigenti di Pechino. Gli intraprendenti capitani d´industria che si erano lanciati nella produzione dei pannelli fotovoltaici erano l´avanguardia di una nuova Cina, il laboratorio di gestazione di un modello di crescita diverso. Lo choc della recessione ne ha messo a nudo la vulnerabilità. Se si fa un calcolo strettamente economico, senza contabilizzare i danni dell´inquinamento, l´energia solare con le tecnologie attuali non è competitiva rispetto ai carburanti fossili (gas o carbone) per produrre corrente elettrica. Ma nell´ultimo triennio la folle corsa al rialzo del petrolio aveva consigliato di guardare a un orizzonte più lontano. A luglio il barile di greggio era giunto a costare 147 dollari. Certi esperti quest´estate assicuravano che avrebbe raggiunto i 200 dollari entro Natale. Dalla Germania alla California diversi governi del mondo avevano offerto incentivi fiscali generosi al solare. Includendo le detassazioni, i pannelli fotovoltaici diventavano un´alternativa interessante. Fino a cinque mesi fa. Ora il petrolio costa un terzo rispetto al picco-record di luglio. Il greggio a 40 dollari ha trascinato sulla sua scia il ribasso di altri carburanti fossili, dal gas al carbone. L´appetibilità di tutte le fonti rinnovabili, in una logica contabile di breve termine, è crollata. Certo bisognerebbe guardare al lungo periodo: agli effetti catastrofici del cambiamento climatico; ai costi che la dipendenza energetica dal Medio Oriente fa pesare sulla nostra sicurezza. Ma non è così che ragiona la maggior parte dei governi, o degli operatori economici. La storia si ripete. Esattamente dieci anni fa, mentre il mondo stava soffrendo le conseguenze della crisi asiatica, poi della bancarotta russa, infine del crac dello hedge fund Ltcm, una delle vittime di quei sussulti finanziari fu il prezzo del petrolio. Il 10 dicembre 1998 la quotazione del greggio sui mercati mondiali toccò un minimo storico: 9,64 dollari (proprio così: nove dollari e sessantaquattro centesimi) per un barile di North Sea Brent. Quel petrolio a buon mercato ebbe effetti drammatici, fece perdere anni nella ricerca sulle fonti rinnovabili. Il solare cinese non è l´unica vittima della recessione-deflazione globale. Theolia, il colosso francese delle energie alternative, ha cancellato il progetto di creare una nuova filiale dedicata ai paesi emergenti. Il magnate americano T. Boone Pickens, che aveva in cantiere la più grande centrale eolica del mondo nel Texas, ha congelato il progetto. Un´altra impresa specializzata nelle pale a vento, la britannica Centrica, ha bloccato tre piani di creazione di nuove centrali eoliche. Oltre all´improvviso ritorno di un temibile concorrente come il petrolio a buon mercato, un handicap aggiuntivo per le fonti rinnovabili è che spesso richiedono finanziamenti a lungo termine. La crisi bancaria ha reso gli investitori ossessivamente prudenti; trovare fondi per progetti decennali è diventato molto più difficile. Nella stessa Cina un la recessione rallenta la battaglia contro l´inquinamento. Perché nel breve termine è la crisi stessa a tagliare le emissioni di Co2. L´improvviso calo dell´export made in China alla vigilia di questo Natale, le 67.000 imprese cinesi fallite in soli sei mesi, hanno già ridotto i consumi di energia elettrica e di petrolio. La priorità assoluta diventa rilanciare lo sviluppo ad ogni costo. He Zuoxiu, esperto di ambiente all´Accademia delle Scienze di Pechino, osserva amareggiato: «Nel maxi piano di spesa pubblica annunciato dal governo per sostenere la crescita (600 miliardi di dollari, ndr) non vedo un solo yuan dedicato all´energia solare».