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 2008  dicembre 19 Venerdì calendario

Dal traliccio pencolavano, appesi per il filo elettrico, grappoli di televisori rossi e neri. Tristi come impiccati»

Dal traliccio pencolavano, appesi per il filo elettrico, grappoli di televisori rossi e neri. Tristi come impiccati». Questa era la scena, il cupo ammonimento, che si presentava alla periferia di Kandahar, quando il mullah Omar e i suoi taleban governavano l’Afghanistan con intransigenza feroce, condannando la musica, i balli, i film, i quadri, le statue, i libri, le gare di aquiloni, vietando la scuola e lo sport alle ragazze. Perfino il canto degli uccelli era stato proibito. Si affiancavano a quegli schermi sventrati i nastri di cassette musicali, appesi a un palo, esposti al sole e al vento, devitalizzati, simili a «grossi ciuffi di alga», in un paese lontanissimo dal mare. La punizione imposta ai televisori e alle cassette anticipava altre punizioni brutali - frustate, mutilazioni, lapidazioni - riservate agli uomini e alle donne di quel paese. Questa è la sintesi, secca e fulminante, di quel regime, disegnata da Guido Rampoldi. Se l’è portata dietro per anni, assieme ad altri ricordi afgani, e adesso l’affida alle pagine de La mendicante azzurra, edito da Feltrinelli. Quando Nix, il protagonista, arriva al Comando per la prevenzione del vizio e la promozione della virtù, nella roccaforte dell’integralismo teologico islamico, viene accolto da un ragazzo sciancato, con il kalashnikov a tracolla. Dentro quell’edificio dall’aspetto innocente ci sono i mullah più autorevoli, con barbe imponenti e turbanti neri, tutti segnati da vecchie ferite accumulate nella guerra contro i comunisti afgani, i loro sostenitori sovietici, e poi nelle battaglie contro i mujaeddin degeneri. Quel gruppo di uomini che hanno subito ustioni, violenze, mutilazioni fisiche e affettive - come altri milioni di afgani - adesso con l’alibi della legge coranica vogliono costruire una società rigida, cupa, senza autonomia privata e spensieratezza. Imponendo la barba agli uomini e il burqa alle donne. Dietro la trama rocambolesca del libro - le mappe delle ricchezze minerarie tracciate dai russi, la biblioteca privata ereditata dal padre che la mendicante azzurra vuole salvare - c’è la radiografia di un mondo diplomatico che da anni ormai si perpetua da solo, senza risolvere i problemi, senza pagare per i fallimenti, ma garantendo le carriere dei suoi funzionari. Nei vari paesi del mondo colpiti da conflitti e bisognosi di ricostruzione, come la Cambogia, la Bosnia, l’Iraq, l’Afghanistan, ricompaiono sempre gli stessi esperti e consulenti. Durante un pranzo, illuminante come un grande affresco, Nix e i suoi colleghi dell’Onu svelano una consuetudine annoiata, un disinteresse reciproco, e una autentica insofferenza per la sorte del paese dove lavorano. «Non c’era da stupirsi se a trattenerli ormai era soltanto il vantaggio personale: la prospettiva di una promozione, o uno stipendio sufficiente a garantire in pochi anni un discreto capitale». Uno dei personaggi paragona quell’avamposto delle Nazioni Unite nella terra dei mullah a un monastero di clausura, dove tutti i monaci si siano convinti che Dio ormai non esiste più. Un giorno il protagonista incontra un commerciante di medicinali pachistano, che vende la sua merce ai taleban. Vicino a loro è seduto il boia di Kandahar, che ha tagliato centodue mani e quarantasette piedi, per fare rispettare la legge coranica. «A parte questo è un brav’uomo» conclude il commerciante, che gli ha appena consegnato aghi e punti da sutura, per dedicarsi alle nuove mutilazioni. Non è un incontro casuale. Da tempo Rampoldi, nei suoi viaggi tra le violenze e le prepotenze del mondo, si imbatte nella apparente, inquietante, innocenza del male. Questa dimensione ambigua del potere, dei dittatori e dei carnefici, è come una colonna sonora che ritorna puntualmente, senza mai ottenere risposta, nei vari paesi. Non la trova certo nell’Afghanistan di oggi, dove i taleban ritrovano forza, dove i liberatori stranieri si trasformano in occupanti aggressivi. E dove il protagonista Nix a un certo punto si finge pazzo per sopravvivere nelle zone tribali del Pastunistan, descritte come un nuovo deserto dei tartari. Proprio su quel confine lunghissimo e ingovernabile, tra Afghanistan e Pakistan, si avventura con un libro completamente diverso Ahmed Rashid, autore di Caos Asia (Feltrinelli), che nella edizione originale inglese parla più efficacemente di discesa verso il caos. Questo fallimento dell’Occidente inizia subito dopo l’11 settembre, con la sconfitta virtuale dei taleban. Racconta l’autore che dopo quella vittoria apparente fu invitato ripetutamente a Washington, in Europa, da governi, organizzazioni umanitarie, università, per esprimere valutazioni e previsioni. In fondo il suo libro sui taleban era stato un successo mondiale, lui era considerato il maggior esperto di quel regime. «Gran parte di ciò che dicevo era dettato dal buonsenso, doveva risultare evidente ai governi occidentali. O almeno così pensavo. Ogni punto della mia lista di questioni è stato scrupolosamente ignorato da Washington». Questa è la realtà sconsolante raccontata oggi in cinquecento pagine fitte di numeri, citazioni, riferimenti bibliografici, come in un sillabario per addetti ai lavori. La discesa verso il caos sembrava programmata. Sulla scrivania di Rashid a Lahore era arrivata una serie infinita di progetti, analisi, piani economici, provenienti dalle istituzioni e dai luoghi più diversi. Ma questi documenti avevano tutti un allarmante denominatore comune. «Nessuno aveva la minima idea di come fosse fatto concretamente il paese». La sconfitta sovietica a Kabul maturata venti anni prima non aveva fornito alcun insegnamento, suggerito alcuna cautela. Compaiono a Kabul consulenti stranieri ancora più avidi di quelli che si muovono attorno alla mendicante azzurra di Kandahar. Guadagnano 1500 dollari al giorno, mentre un funzionario afgano di un ministero ne guadagna 30 al mese. Così, in pochissimo tempo, chi sa utilizzare un computer e parlare un po’ di inglese emigra verso gli uffici delle ambasciate e delle organizzazioni internazionali, svuotando il già gracile apparato statale afgano. I militari Usa, imitati poi dagli altri occidentali, impongono che tutti i funzionari americani debbano avere una scorta quando si muovono, e siccome non ci sono soldati sufficienti, gli addetti alla ricostruzione restano chiusi nei loro uffici. I donatori vogliono fornire scuole, infermerie, pozzi, ma senza consultare i ministeri afgani, depauperati dagli stranieri che ingaggiano i funzionari locali. «Un anno dopo, a novembre 2003, New York calcola che i progetti portati a termine equivalgono a 110 milioni di dollari, su un totale di esborsi per 2,9 miliardi». La Bosnia ha ricevuto per la ricostruzione 679 dollari pro capite, il Kosovo 529, ma l’Afghanistan solo 57 nei primi due anni. Rashid cita una fonte americana: «In parole povere, eravamo una cucina con 150 cuochi». Quando Karzai chiede a Bush il finanziamento per ricostruire l’asse stradale principale, da Herat fino a Jalalabad, devastato da venti anni di guerra, la Cia blocca la richiesta. Eppure quello è il primo strumento per rimettere in marcia il paese. Ma uno degli errori più disastrosi riguarda i signori della guerra, tenuti in vita volutamente dai militari occidentali. Anche quelli che in apparenza disarmano i loro uomini, in realtà li impegnano nella produzione e nel traffico di eroina. L’Afghanistan che celebra le prime elezioni è diventato nel frattempo il primo paese al mondo per il traffico di eroina. Mentre l’ambasciata americana a Kabul, seguita dalle altre ambasciate occidentali, vieta il centro della città agli afgani per meglio proteggersi. Un funzionario della Banca mondiale riassume a Rashid: «Così sicura e tagliata fuori che potrebbe anche trovarsi a Washington». Oggi il disordine regna in Afghanistan, grazie ai televisori impiccati dai mullah e ai 150 cuochi entrati successivamente in cucina.