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 2008  novembre 19 Mercoledì calendario

Il colonnello Bagosora è un uomo di parola: aveva promesso ai tutsi del Fronte patriottico ruandese che avrebbe preparato l’Apocalisse

Il colonnello Bagosora è un uomo di parola: aveva promesso ai tutsi del Fronte patriottico ruandese che avrebbe preparato l’Apocalisse. Non erano forse «scarafaggi», come li chiamavano gli hutu? Ebbene, lui li avrebbe calpestati con minuziosa precisione, ogni cosa al suo passaggio doveva avvizzire fino alla radice. Per vedere questa apocalisse in quegli abominevoli giorni di aprile del 1994, bastava andare lungo le rive del fiume Kagera e aspettare. Il corso d’acqua era fiacco, limaccioso, si apriva a malincuore la strada tra le colline il cui verde si sfarinava nella nebbia. E così i cadaveri venivano giù fiaccamente, abbracciavano gli arbusti come se cercassero un riposo e invocassero la nostra pietà o la nostra indignazione di spettatori. Si trattano gli uomini così, anche se questa è Africa, dove la morte è gratuita, non costa niente per la facilità con cui è data, per la crudeltà con cui è inflitta? Alcuni si gonfiavano oscenamente negli acquitrini prima di riprendere la loro corsa a valle, verso il grande padre Nilo. Un continente unificato dal massacro, come dicevano i miliziani hutu ghignando: «Così questi tutsi maledetti tornano alla terra da dove sono venuti e non avrebbero mai dovuto partire». Allora in Ruanda, per capire il futuro, si contavano i morti che passavano nei fiumi: tanti cadaveri? La pulizia è ancora in corso. Si diradano? Il lavoro è quasi finito. Oppure i tutsi, assetati di vendetta, armati fino ai denti, si stanno avvicinando un po’ troppo, adesso tocca a noi scappare. Quando qualcuno di quei cadaveri restava a riva (nessuno si preoccupava di fermare quel fiume di carne martoriata) si restava imbambolati davanti alle loro piaghe, al modo selvaggio con cui erano stati eliminati. Una strage artigianale, fatta con l’accetta o la mazza, si è poveri sempre, anche nell’ammazzare. Il machete dev’essere ben affilato per uccidere al primo colpo. Qui lo usano per buttar giù i lunghi pettini di alberi che scolpiscono le colline: è una terra piccola, il Ruanda, e la gente è tanta, c’è bisogno sempre di nuovi campi. Pochi hanno tempo e voglia di rifare la lama. E allora per uccidere bisogna accanirsi, colpire e poi ancora colpire. Gli oggetti sembravano allinearsi alla furia bestiale degli uomini. Qualcuno allora disse che si moriva «come agnelli della Bibbia». No, era peggio. Il Ruanda era un posto dove essere assassini non bastava. Bisognava straziare e seviziare. Si aveva la sensazione di una capillare, invisibile potenza del Male, una saturazione di tutto il paesaggio da parte di un invisibile odio corrosivo. Allora sembrava semplice da spiegare, questo zelante, furioso raptus della ragione: la morte, in fondo, è la padrona segreta di queste terre, hutu e tutsi si scambiano con cadenza periodica i massacri, i carnefici prima o poi diventano vittime. Il pensiero identitario, sì la tribù, non cerca forse l’ultima prova della sua esistenza nella negazione assoluta dell’Altro. Ovvero nello sterminio di massa? Allora non c’erano dubbi a inserire la Shoah africana nella lunga lista dei regolamenti di conti, delle guerre, dei massacri tra le due comunità. Solo dopo ci si è chiesti: non è questo un modo per banalizzare questa tragedia? Averla considerata fin dall’inizio solo l’ennesima guerra tribale, non è stato l’errore di chi ne fu testimone e trascurò di coglierne in tempo il ritmo forsennato, l’entità? Perché la mondializzazione fa finta di non accorgersi della morte inflitta, esperienza universale quanto nessun’altra? Quando arrivarono i liberatori, i tutsi del generale Kagame, ansiosi di diventare a loro volta carnefici (e non hanno mancato l’impegno, 200 mila hutu massacrati nelle foreste del Congo e quella guerra continua ancora!) sembrava che i sopravvissuti si vergognassero, avessero indosso il terribile segreto di una verità che non si poteva dire. A Butare per esempio, tutti sapevano che cos’era nascosto sotto l’orto botanico dell’Università, un posto dolce smaltato del verde di pini e banani che si davano una mano a fare ombra, che gocciolavano allegri sotto gli acquazzoni. Migliaia di cadaveri, mezza città spazzata via, recisa dall’altra metà. Il tribunale di Arusha non ci spiegherà mai il mistero di quegli assassini: non professionisti del delitto o soldati in preda al panico o a un odio bestiale. Era gente comune che ha ucciso scuoiato martirizzato al di là dell’immaginaziona i vicini di casa, i compagni di lavoro o di studio. Era la radio, la «radio delle mille colline», che ripeteva, uccidete uccidete, bisogna eliminare tutti i tusti prima che arrivino gli altri dall’Uganda. E loro, armati di mazze e machete (le pallottole erano riservate a chi aveva i soldi e pagava per morire senza soffrire), come bravi operai del Male, coprivano di croci gli elenchi ricevuti. E’ la logica del genocidio, questa, anche se i giudici di Arusha hanno preferito aggirare la scomoda parola di tutte le notti di San Bartolomeo della storia: essere i primi a uccidere, per non essere uccisi, c’è sempre un precedente massacro che ci giustificherà.