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 2008  dicembre 18 Giovedì calendario

La Stampa, giovedì 18 dicembre 2008 In un Paese dove sono molti coloro che allo Stato non vorrebbero pagare neppure le tasse (riuscendoci quasi sempre), chi invece vorrebbe donare qualcosa di prezioso, magari senza contropartita, ha grosse difficoltà

La Stampa, giovedì 18 dicembre 2008 In un Paese dove sono molti coloro che allo Stato non vorrebbero pagare neppure le tasse (riuscendoci quasi sempre), chi invece vorrebbe donare qualcosa di prezioso, magari senza contropartita, ha grosse difficoltà. Certo, è una minoranza «ricca», ma non sempre: grandi collezionisti - o i loro eredi - e intellettuali importanti che nella vita hanno accumulato documenti, libri, carteggi. Uno di questi, come ha scritto Tuttolibri, è Arturo Schwarz, ultraottoantenne storico dell’arte, saggista e poeta (l’altro giorno era alla «palazzina Liberty» di Milano con i suoi deliziosi versi d’amore e una camicia rosso fuoco, per il convegno-evento organizzato da Tomaso Kemeny col titolo Le avventure della Bellezza), titolare della più importante biblioteca al mondo sulle avanguardie del Novecento, in particolare surrealismo e dadaismo; oltre che di una grande collezione d’arte. Intervistato da Paola Décina Lombardi ricorda come vent’anni fa tentò di donare tutto allo Stato, senza successo. Un ministro la prese male, ritenendo quei tesori robaccia pornografica e anticlericale; altri, come Ronchey e Paolucci, si dettero da fare, ma fu una via crucis. Alla fine le opere d’arte andarono alla Galleria d’Arte Moderna di Roma. I libri, invece, lo Stato proprio non li voleva. «Anziché venderli al Getty Museum, che mi offriva due milioni di dollari, li ho regalati a Israele». Non è un caso unico. Le disavventure del donatore sono un copione che si ripete molto spesso. E’ accaduto a Fernanda Pivano, che ha cercato di dare al Comune di Milano, senza successo, la sua biblioteca-archivio, con testi, libri, lettere della Beat Generation, ma è riuscita a trovare una sistemazione adeguata solo grazie all’intervento della Fondazione Benetton, che nel ”98 ha creato nella vecchia Milano, in corso di Porta Vittoria, la Biblioteca Riccardo e Ferdinanda Pivano. E pensare, ricordava la saggista, che «l’allora sindaco Tognoli mi fece gentilmente notare come fosse meglio, i libri, tenerseli a casa». Consiglio forse interessato, ma che qualche volta dà anche l’avvocato Enrico Vitali. Fra i denti, perché non gli fa piacere. E’ il protagonista di un’odissea complicatissima, cominciata nel ”92 alla morte del padre, Lamberto, critico d’arte e personaggio di grande spicco nel mondo artistico, che lasciò allo Stato gran parte della sua ricca collezione, ora quasi tutta a Brera, con un’ottantina di opere. Qualcosa andava però anche agli eredi. «E’ stato complicato - racconta - risolvere tutte le questioni con lo Stato, ma per distinguere le opere donate da quelle che restavano in famiglia sono occorsi tempi biblici». Vennero tutte «notificate», e cioè sottoposte a vincolo. «E fra tante buone volontà che cozzavano contro burocrazie allucinanti, abbiamo ottenuto il decreto che toglieva questo vincolo solo quest’anno». L’avvocato è divenuto un grande esperto, anche dal punto di vista psicologico. «Donare una singola opera è semplice. Ma quando il funzionario pubblico si trova davanti a una collezione, si comporta un po’ come un pm davanti a un pentito. Notifica tutto, anche se si tratta del pittore piripicchio; è un riflesso condizionato». Si ottiene così un doppio risultato. «Nessuno vuol più far sapere che possiede opere importanti; ma soprattutto la donazione viene scoraggiata, perché si sa che porterà un sacco di grane, col pericolo che venga bloccato tutto ciò che si possiede». Donazione a parte, pare capiti spesso. Alla recente asta torinese di Bolaffi dedicata ai manoscritti, le notifiche, una sessantina, si sono abbattute su una quantità di lotti che forse sarebbero più sicuri nelle mani di un collezionista appassionato, e non in musei dove non c’è spazio. In particolare su quello più prezioso: la stesura originale della Francesca da Rimini, una delle grandi opere liriche del Novecento, di Riccardo Zandonai. Ma questo è un problema (appena) diverso. Antonio Paolucci, che è stato sovrintendente agli Uffizi e ministro dei Beni Culturali, dalla sua scrivania ai Musei Vaticani invoca chiarezza, anche a proposito delle polemiche sulla riorganizzazione del Ministero per i beni culturali e sulla temuta penalizzazione dell’arte contemporanea. «Secondo me - dice - per quanto riguarda l’arte contemporanea, meno lo Stato mette becco, meglio è. Lasciamo fare al collezionismo e al mercato. Fioriscano cento fiori, come diceva il presidente Mao. E lo proclamo dal Vaticano». Per quanto riguarda le donazione, invece, nessun problema. «Non è vero che sono impossibili. Anzi. Se i principi Odescalchi volessero mai regalare un Caravaggio, troveranno ponti d’oro. Lo Stato si ritira quando ci sono complicazioni, per esempio di tipo ereditario, o quando è previsto l’obbligo di esporre le opere, magari in un certo modo. Alle ”donazioni modali” si dice no, ma questo è comprensibile». Mao a parte, fino a un certo punto. Esempio: l’Università di Bologna ha accettato l’eredità di Federico Zeri, che prevedeva anche la valorizzazione della villa del grande critico, a Mentana. Ora la sua enorme raccolta di fotografie d’arte, un catalogo immenso e unico, è a Bologna, ben riordinata, ma intorno all’utilizzo della villa di Mentana le polemiche sono andate avanti per anni. E molte ricche collezioni, soprattutto del Novecento, sono finite in Svizzera, come per esempio la donazione Aligi Sassu. «Non entro nel merito delle difficoltà tecniche, ma certo il disinteresse degli italiani per la loro storia è assoluto - dice Lea Vergine -. L’archivio degli scrittori italiani voluto da Maria Corti a Pavia resta un miracolo». La critica d’arte denunciò anni fa la vicenda della donazione a Milano di Lucio Fontana: se ne fece una mostra e un catalogo, ma poi non si trovò lo spazio. Per non parlare delle opere quasi tutte americane della collezione Panza di Biumo, offerte due volte all’Italia senza successo. La terza tranche ha trovato accoglienza al Fai, il Fondo per l’ambiente, che è un’istituzione privata. E non è certo il solo caso. Anche Claudia Gian Ferrari, gallerista e storica dell’arte, è contentissima di aver preso la stessa strada, dopo qualche iniziale sbandamento. «Alla morte di mio padre, decidemmo di donare a Brera un’opera importante, Gli amanti di Arturo Martini. Incominciammo l’iter burocratico, col risultato che dall’86 al ”96 non ottenemmo mai risposta». Ora il bassorilievo, insieme ad altre 43 opere in prestito permanente è nella bella dimora milanese di Villa Necchi, capolavoro del razionalismo passato in proprietà al Fai. «Sono contenta di averlo fatto. Pensi che ogni tanto vado a dormire con i miei quadri. Ho una stanza e un bagno». Certo, un fine settimana da padrone di casa al museo non è alla portata di tutti, né lo Stato potrebbe offrirlo. Suonerebbe eccessivo: ma ci sarà una via di mezzo? Mario Baudino