Daniel Gross, Corriere della Sera 18/12/2008, pagina 46., 18 dicembre 2008
Corriere della Sera, giovedì 18 dicembre 2008 La città di Georgetown, in Kentucky, poco a Nord di Lexington, era conosciuta per le due grandi risorse di quello Stato: il bourbon e i cavalli
Corriere della Sera, giovedì 18 dicembre 2008 La città di Georgetown, in Kentucky, poco a Nord di Lexington, era conosciuta per le due grandi risorse di quello Stato: il bourbon e i cavalli. Si dice che nel 1789 Elijah Craig, un pastore battista, abbia distillato da quelle parti la prima partita di bourbon in botti di quercia bruciate all’interno. Cavalli di razza pascolano e scorrazzano per i campi erbosi cintati delle fattorie che circondano gran parte della città. Ma negli ultimi vent’anni sono altri tipi di «cavalli» – quelli delle Camry, Avalon e Solara – ad aver trasformato Georgetown da tranquilla cittadina di campagna a città intensamente industrializzata. Nel 1986 la Toyota, attratta anche da incentivi – fiscali e di altra natura – per quasi 150 milioni di dollari, vi ha impiantato un’enorme fabbrica. E da allora il territorio bucolico si è trasformato. L’area di 500 ettari in cui la Toyota si è insediata, investendo 5,3 miliardi di dollari, produce quasi una macchina al minuto. La popolazione di Georgetown è raddoppiata. Nei campi, dove una volta gli agricoltori coltivavano tabacco e allevavano bovini, sono sorti complessi di appartamenti e condomini. Vicino alla fabbrica della Toyota è nato un centro commerciale di 16.000 metri quadrati per soddisfare le esigenze dei 7.000 impiegati. «Senza alcun dubbio l’apertura di credito fatta dallo Stato alla Toyota è stata ampiamente ripagata », dice Damon Thayer, senatore repubblicano del Kentucky. A dire il vero la fabbrica di Georgetown non è immune dai problemi che hanno portato le industrie manifatturiere americane di Detroit sull’orlo del disastro. Recentemente ha dovuto sospendere dal lavoro 250 lavoratori temporanei e limitare la produzione. Brian Howard, quarantaduenne capo reparto della verniciatura, vent’anni di anzianità, è però contento di come stanno andando le cose. Ha un buon salario e un’assicurazione sanitaria a buon mercato, 74 dollari al mese per tutta la famiglia. «Ci dicono da anni che si stanno preparando per i tempi duri», ha detto. «Ebbene, i tempi duri sono arrivati e non stiamo andando male a paragone delle Big Three». Un tempo le Big Three erano l’industria automobilistica degli Stati Uniti, ora non più. Negli ultimi vent’anni, attirata dalla mano d’opera a basso costo e da massicci incentivi, è emersa una seconda industria automobilistica: non sindacalizzata, collocata al Sud e di proprietà straniera. Grandi fabbriche con i nomi di costruttori asiatici ed europei costellano ora quelle aree, accanto ai monumenti che commemorano la Guerra Civile. Insediandosi aggressivamente in Kentucky, Tennessee, Alabama, Mississippi, South Carolina, Georgia e Texas, queste industrie straniere – chiamiamole le «Little Eight » – hanno trasformato la geografia economica dell’industria automobilistica americana e il dibattito politico sul suo futuro. A sentire i discorsi che si fanno a Washington, si direbbe che Toyota, Hyundai, BMW e le altre siano americane quanto la apple-pie. E in un certo senso ora lo sono. Il senatore del Kentucky Mitch McConnell ha fatto un appello appassionato ai suoi colleghi perché si opponessero al pacchetto di aiuti da 15 miliardi di dollari che la Camera dei Rappresentanti aveva approvato per General Motors, Ford e Chrysler. «I costi del lavoro dovrebbero essere portati allo stesso livello di quelli della Nissan, della Toyota e della Honda: non domani, ma subito», ha detto. Nel weekend McConnell e i suoi colleghi repubblicani contrari al piano di salvataggio, come Richard Shelby dell’Alabama e Bob Corker del Tennessee, avevano fermato in Senato il disegno di legge sul piano di salvataggio. I rappresentanti degli Stati meridionali sembra abbiano scelto un momento particolarmente delicato per lanciare la loro battaglia contro gli Yankees di Detroit: General Motors e Chrysler hanno avvertito che senza questi fondi potrebbero essere costrette a dichiarare fallimento. Harley Shaiken, un’economista del lavoro dell’università di Berkeley dice che se Detroit crollasse, alla vigilia di Natale e nel bel mezzo della peggiore crisi dell’occupazione da molto tempo a questa parte, la cosa «avrebbe un effetto devastante ». I legislatori contrari al piano di salvataggio sono tutti repubblicani con una radicata antipatia verso le organizzazioni dei lavoratori, e sono irritati per il modo inadeguato con cui il governo ha gestito il piano di salvataggio finanziario. Ma sia loro che molte delle loro controparti in Senato sanno bene come lavorano le industrie straniere, avendole viste da vicino. La battaglia sul piano di salvataggio ha mostrato quel che a prima vista potrebbe sembrare un nuovo tipo di provincialismo, che oppone i democratici e qualche repubblicano (come il senatore George Voinovich dell’Ohio) degli Stati delle «Big Three» e dei sindacati forti ai repubblicani degli Stati dove vige il «right to work» ( legge che esonera i lavoratori dall’obbligo di iscrizione a un sindacato ndt.) McConnell e soci si oppongono ad aiutare con finanziamenti federali le «Big Three», eppure gli Stati da cui essi provengono hanno a loro volta generosamente elargito miliardi di dollari alle industrie automobilistiche straniere. Ma c’è una frattura ancor più profonda. Gli attuali politici del Sud hanno visto le loro economie prosperare grazie a un’industria automobilistica più giovane, vitale e non gravata dai costi ereditati dalle «Big Three» e dalle regole sindacali sul lavoro – una sorta di anti-Detroit che ha la flessibilità e la capacità di produrre profitti facendo le macchine che gli americani vogliono comprare. Le industrie straniere, ovviamente, devono affrontare la stessa difficile situazione di mercato con la quale si confronta Detroit. La vendita delle auto, colpita dalla mancanza di liquidità e dalla scarsa fiducia dei consumatori, quest’anno è precipitata ovunque. In novembre le vendite delle Toyota sono diminuite del 34 per cento: in questi giorni a Smyrna, in Tennessee, un gruppo di consulenti finanziari sta verificando la questione dell’offerta fatta dalla Nissan per compensare con una somma fino a 125.000 dollari le dimissioni volontarie dei dipendenti. Lo scorso autunno a San Antonio l’impianto Toyota per la Tundra è rimasto inattivo per tre mesi, anche se nessuno è stato licenziato. Secondo Richard Perez, presidente e amministratore delegato della Greater San Antonio Chamber of Commerce, la Toyota ha lasciato alla città «un bel po’ di persone che vorrebbero darsi da fare» (San Antonio le ha impegnate in progetti di abbellimento). La Toyota ha ovviamente i mezzi per mostrarsi più generosa, anche perché le società a lei affiliate non sono gravate dall’onere di fornire assistenza medica e pensione ai lavoratori nei loro rispettivi mercati. Nonostante la crisi, le industrie automobilistiche straniere – e gli Stati in cui operano – sono in una situazione molto più favorevole rispetto a Detroit. Nella fase in cui le industrie principali del Sud’ tessili e dell’abbigliamento – si stavano trasferendo altrove, l’industria automobilistica straniera è diventata sempre più una risorsa essenziale per l’economia della regione. Nel 2007 Toyota ha investito negli Stati Uniti più di 17 miliardi di dollari, in 10 fabbriche che in totale impiegano più di 36.000 lavoratori. L’Alabama, che nel 1995 non produceva neanche un’automobile, lo scorso anno ne ha sfornate 800.000, diventando il quinto Stato produttore di auto. Il Tennessee si è appena assicurato un investimento di 1 miliardo di dollari dalla Volkswagen per l’istallazione di una nuova fabbrica a Chattanooga. La regione settentrionale del South Carolina è passata da un’economia basata su un’industria tessile in declino a un’economia fiorente con l’arrivo della BMW negli anni Novanta (la casa tedesca produce in quello Stato la X5 e la X6). «La BMW offre le migliori opportunità di lavoro in quell’area », dice il deputato repubblicano Bob Inglis. « una manna per il South Carolina ». L’arrivo di queste industrie è stato un importante volano per lo sviluppo dell’indotto. «Ogni posto di lavoro nella produzione automobilistica ne genera altri cinque nel settore dell’acciaio, delle ruote, della gomma, in quello dei programmatori e dei rivenditori di auto», dice Robert Scott, economista dell’Economic Policy Institute di Washington. L’attività della Toyota, ad esempio, dà lavoro in Kentucky a 28.000 persone. Secondo l’Association of International Automobile Manufacturers, nel 2007 le industrie automobilistiche straniere hanno impiegato 92.700 lavoratori direttamente e 574.500 indirettamente, coprendo il 33 percento della produzione di auto negli Stati Uniti. Le Big Three, al confronto, hanno 240.000 dipendenti. Daniel Gross