Marco Ansaldo, La Stampa 17/12/2008, 17 dicembre 2008
MARCO ANSALDO PER LA STAMPA DI MERCOLEDì 17 DICEMBRE 2008
Il 27 giugno del 2006, quando si diffuse la notizia che Gianluca Pessotto si era lanciato con un rosario tra le mani dal tetto della sede della Juventus e si trovava in fin di vita all’ospedale Molinette, la prima reazione fu di stupirsi, la seconda di banalizzare al massimo le ragioni per cui l’aveva fatto, come succede con le cose che non si capiscono e che creano l’inquieta sensazione di vuoto. Uno sportivo ricco e famoso che si scopre depresso fino a tentare il suicidio è incomprensibile persino a chi potrebbe stilare un lungo elenco che comincia con Agostino Di Bartolomei e prosegue fino a chi, come Buffon e Bobo Vieri, la depressione l’ha confessata trovando la forza di chiedere un aiuto per tirarsene fuori in tempo. La bella puntata di «La Storia siamo noi», il programma di Giovanni Minoli che va in onda questa sera alle 23 su Raidue, aiuta a capire il dramma di Gianluca e qualcosa di più. Non si toccano, nè ci dovevano essere, tutte le cause che contribuirono a quel gesto però vi compaiono le più inattese e Pessotto ha la forza di affrontarle, come già fece nel libro ”La partita più importante” uscito qualche mese fa. Il suo è il racconto di una follia che si innesta e si alimenta di altre che le scorrono al fianco e talvolta la intersecano.
Pessotto, nel 2006, sta per compiere 36 anni ed è un uomo estremamente sensibile, cresciuto con un forte senso del dovere e del non dover mai deludere nessuno. E’ pure intelligente, coltiva buone letture e senza essere il più bravo in quella Juve possiede il carisma di chi è un leader usando soltanto il buon senso. Ma è a fine carriera e vive, più o meno apertamente, il trauma di chi non sa immaginarsi il futuro. «Mi identificavo troppo con il Gianluca calciatore - confessa -, tutto ciò che facevo era dovuto al fatto che mi consideravo un giocatore. Nel momento in cui sono venuti a mancare questi requisiti, perché ormai giocavo meno e pensavo a cosa avrei fatto dopo, è venuta meno anche la fiducia in me stesso e nell’amore degli altri». Ormai ha scelto di smettere. La Juventus gli ha offerto un posto da team manager, il dirigente più vicino alla squadra: lo ha accettato, in fondo è un modo per prolungare le emozioni di sempre.
Tuttavia non basta a scacciare le paure cui si aggiunge il turbamento per lo scandalo che proprio in quei giorni travolge la Juve. «All’inizio ho pensato che fosse la solita bolla di sapone creata per distrarci. Invece era una cosa molto più seria e con il tempo capii che non sarebbe finita con l’estate. Tutto ciò che avevo fatto in campo veniva dimenticato, azzerato, cancellato. E’ come ricevere un cazzotto e non capire da dove è arrivato».
Il muro delle certezze si sgretola. Altre inquietudini, più private, lo trasportano in una realtà parallela. Da quel momento Pessotto si immagina vittima di un complotto, nella sua mente si agitano figure strane. «Mi sentivo l’oggetto di una persecuzione, inseguito come il peggiore dei furfanti, in ogni persona che incontravo vedevo il Diavolo o la Madonna». Gli incubi gli tolgono il sonno, il risveglio è cupo, sapendo che c’è da vivere la nuova giornata. «Una notte, tornando a casa, comprai una bottiglia d’acqua e mi sembrava che le monete di resto fossero come impolverate e cosparse di sostanze stupefacenti per incastrarmi. Immaginavo che ci fosse ad aspettarmi la Guardia di Finanza e che, da un’auto che mi seguiva, due persone con le fattezze vaghe dei miei suoceri mi dicessero ”Vedrai che brutta fine”». Lui che fin da bambino si è sempre prodigato per trovare le soluzioni ai problemi degli altri, davanti al suo, troppo grande perché lo risolva da solo, non ha il coraggio di chiedere un soccorso. Ai suoi genitori dice che va tutto bene, anche la sera prima di provare a uccidersi. I compagni di squadra non percepiscono quanto gli sta succedendo. Solo il medico della Juve, Riccardo Agricola, raccoglie qualche confidenza sul suo disagio poi però lo vede buttarsi a capo fitto nel nuovo lavoro e non riceve nuovi segnali di pericolo.
Attorno a Pessotto si agita un mondo distratto che non ha il tempo per fermarsi a guardarlo. C’è Moggiopoli, con le intercettazioni telefoniche che compromettono il club, e intanto è cominciato il Mondiale: quando Pessotto va nel ritiro ad Amburgo per spiegare i nuovi sviluppi ai cinque juventini della Nazionale neppure Lippi ha la percezione della tragedia che si avvicina. Gli incubi si inseguono. «Finché mi vidi a una riunione in sede, alla quale ero arrivato in ritardo: c’era una figura con l’anello al mignolo, avevo inventato per lei anche un nome, mi pare Miniz. Quando uscii dalla sede c’era un’auto con la targa di Montecarlo, o forse era svizzera, Andai a casa, spensi la luce definitivamente. Mi svegliai dopo 8 o 9 giorni». Che è il periodo passato in coma farmacologico alle Molinette dove, come racconta il professor Donadio, Pessotto arrivò in una situazione di ”sfacelo traumatico” per le molteplici lesioni provocate dalla caduta, appena attenuata dall’impatto con l’auto di Bettega, parcheggiata nel cortile.
Le cure, le ricadute («Quando gli portarono a vedere la Coppa vinta in Germania lo colse una febbre fortissima che non ci sapevamo spiegare», ricorda Donadio). Tutto scorre nel percorso verso la vita. «Finché un giorno lo psichiatra mi spiegò cosa era successo. Mi disse ”l’hai fatto tu”. Avevo appena ripreso a mangiare, rimasi a digiuno per tre giorni cercando di capire. Ancora non trovo la spiegazione al fatto di aver scelto di provarci in sede. Forse in qualche modo sapevo che per me era un posto sicuro».