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 2008  dicembre 16 Martedì calendario

Corriere della Sera, martedì 16 dicembre 2008 Che differenza c’è tra una pelliccia di pantera, una Ferrari 612 Scaglietti e una clinica per curare i bambini colpiti dalla leucemia? Nessuna, per il fisco dello Stato italiano

Corriere della Sera, martedì 16 dicembre 2008 Che differenza c’è tra una pelliccia di pantera, una Ferrari 612 Scaglietti e una clinica per curare i bambini colpiti dalla leucemia? Nessuna, per il fisco dello Stato italiano. Il quale, alla «Città della speranza» di Padova, che sta per regalargli il più importante centro europeo di ricerca del settore costruito tutto con finanziamenti dei privati, chiede anche di pagare il 20 per cento di Iva. Una tassa che mai come in questo caso appare indecente. Per capire quanto sia assurda questa storia di ottusità burocratica e fiscale, occorre fare un passo indietro. E ripartire da undici anni fa, quando un po’ di persone di buona volontà trainate da Franco Masello, titolare di una impresa di Malo (Vicenza) prima al mondo nella produzione di vasi di terracotta, si incaponirono nel progetto meravigliosamente folle di dimostrare che loro sarebbero riusciti a compiere un miracolo. Costruire in un anno, senza soldi pubblici, il nuovo reparto di Oncoematologia Pediatrica di Padova. E rompere finalmente un andazzo che stava diventando un incubo. Basti dire che la ristrutturazione del Policlinico era in corso da nove anni, era stata completata solo a metà e si era già mangiata 35 miliardi di lire contro i 15 inizialmente previsti. Scommessa vinta. Posa della prima pietra il 14 novembre 1997, consegna chiavi in mano (tutto incluso, anche le lampadine) il 14 novembre 1998. Totale: 365 giorni. Per un ospedale. A dispetto della burocrazia, che pretendeva decine di autorizzazioni firmate da 11 enti diversi, dalla Regione ai Vigili del Fuoco, dai Beni Culturali al Comune, dai Beni Ambientali alla Usl, dall’Università al «Comitato Mura Antiche di Padova». A dispetto di un rallentamento dovuto alla scoperta di resti archeologici. A dispetto di certi intoppi incredibili come il timbro di collaudo sull’apposito modulo per l’ascensore, timbro atteso per otto mesi. Quasi il tempo impiegato per edificare l’intera palazzina, metterci dentro i letti, acquistare e sistemare i macchinari, dipingere le pareti con disegni coloratissimi che facessero sentire i piccoli ricoverati in un ambiente un po’ meno asettico, anonimo, crudele. Dieci anni dopo, la «Città della Speranza » è il centro più importante d’Italia per la cura della leucemia infantile, gestisce la banca dati nazionale e un centro di ricerca internazionale, ha curato migliaia di bambini e a moltissimi ha restituito la vita. Un paio di numeri dicono tutto: venti anni fa la morte si portava via 65 piccoli su cento, adesso 25. Ma sono sempre troppi. Troppi. E basta visitare le stanze del centro per sentirsi mancare il fiato come mancò all’ allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi e a sua moglie Franca il giorno in cui, di passaggio a Padova, furono letteralmente trascinati a vedere la clinica, all’interno del complesso del Policlinico, dopo una cerimonia ufficiale. Cerimonia durante la quale non una autorità presente, neppure una, si era ricordata di citare i volontari che avevano donato a loro spese quel gioiello a Padova e all’Italia. E’ cresciuta molto, la fondazione. Ha ottenuto, dopo interminabili battaglie (che se non fossero state tragiche avrebbero avuto risvolti comici) lo status di «organizzazione non profit». E’ arrivata a 7.500 ricoveri l’anno in day hospital. Ha allestito un centro di ricerca sul quale ha già investito 14 milioni di euro. Stipendia direttamente 35 ricercatori. Ha finanziato gli studi di Paolo De Coppi, il giovane scopritore delle staminali «amniotiche» (benedette anche dal Vaticano) che dopo aver lavorato in Olanda e negli Stati Uniti è diventato, a 35 anni, primario al Great Ormond Street Hospital di Londra. Tutti i volontari non ricevono un centesimo, si pagano la benzina, vanno a mangiare la pizza tirando fuori i soldi di tasca propria senza toccare un euro dei fondi raccolti. Insomma, gente seria. Che proprio oggi parte con una nuova impresa: la costruzione, ancora a Padova, della «Torre di ricerca». Un grande edificio di dieci piani disegnato dall’ architetto Paolo Portoghesi, che ha regalato il progetto. Quasi 15mila metri quadri di laboratori di ricerca (9mila gestiti direttamente dalla «Città della Speranza», gli altri destinati alla Pediatria dell’università) nei quali potranno trovare spazio complessivamente 700 ricercatori. Un investimento iniziale di 15 milioni di euro garantiti dalla fondazione. Parte raccolti tra gli amici, parte (quasi quattro milioni e mezzo) ricevuti in dono da Annamaria De Claricini, una signora milanese che ha chiesto che parte del centro sia dedicata alla memoria del marito, il ginecologo Corrado Scarpitti. Bene: da questa impresa temeraria, che finirà per costare circa 22 milioni di euro (sei volte più di quanto il governo ha distribuito quest’anno alle associazioni di volontariato con l’8 per mille!) e dovrebbe fare della «Torre » il più importante centro di ricerca europeo per le leucemie infantili, la sanità pubblica ha tutto da guadagnare. Il terreno è stato regalato alla «Città della Speranza» da «Zip», un consorzio che raggruppa il Comune di Padova, la Provincia e la Camera commercio. I soldi e l’impegno li mettono i privati. Eppure, non pago di avere in dono una struttura del genere, lo Stato imporrà alla «Torre» di pagare 4 milioni e mezzo di Iva. Il 20 per cento. Il doppio dell’Iva agevolata imposta, ad esempio, sul materiale che i partiti comprano per la campagna elettorale. Come se invece che un complesso scientifico che sarà messo a disposizione di tutti gli italiani, la fondazione comprasse delle Maserati, ordinasse delle costosissime bottiglie di «Sassicaia » o costruisse residence di lusso. Con una aggravante: che non essendo la «Città della Speranza» un’azienda privata, l’Iva non può neppure scaricarla. Un capannone si scarica dalle tasse, un centro di ricerca d’eccellenza no. Che senso c’è? Questo vorremmo sapere: che senso c’è? Gian Antonio Stella