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 2008  dicembre 16 Martedì calendario

la Repubblica, martedì 16 dicembre 2008 Discendente d´una grande famiglia aristocratica, fiorentino di nascita, napoletano per origine paterna, di madre americana, Carlo Caracciolo è stato una figura di spicco nell´editoria italiana storico presidente del gruppo editoriale L´Espresso e, dal 2006, suo presidente onorario

la Repubblica, martedì 16 dicembre 2008 Discendente d´una grande famiglia aristocratica, fiorentino di nascita, napoletano per origine paterna, di madre americana, Carlo Caracciolo è stato una figura di spicco nell´editoria italiana storico presidente del gruppo editoriale L´Espresso e, dal 2006, suo presidente onorario. Aveva compiuto 83 anni lo scorso ottobre. Nei vari incarichi di vertice via via assunti con lo svilupparsi del suo impero mediatico egli aveva conservato quel garbo discreto e quell´understatement venato d´ironia che ne facevano una presenza inimitabile tra gli imprenditori della carta stampata. Su questa linea di stile, la "carriera" di Caracciolo - costellata di episodi a tratti tumultuosi - è sembrata svolgersi in contrasto con l´indole, serena e in apparenza distratta, del suo protagonista. Una storia professionale, la sua, che era cominciata nei primi anni Cinquanta con la fondazione, a Milano, della Etas - poi Etas Kompass - una società di riviste tecniche ed annuari industriali, cui si sarebbe presto affiancata un´azienda di réclame, la Publietas. Iniziative sorte su basi fragili, quasi (così lui le giudicava) "scommesse giovanili". Queste attività di Carlo si svolgevano in affettuosa dialettica con suo padre Filippo, principe di Castagneto, che a tanto attivismo assisteva con trepidazione. Non che Caracciolo padre fosse un inesperto di editoria. Trasferitosi ancora adolescente a Firenze da Napoli (dov´era nato nel 1903), con sua madre appena separata dal marito, Filippo aveva fondato un quotidiano intitolato Lo Stato. Non aveva ancora vent´anni. A ventidue sposò Margherita Clarke, un´americana di New Orleans appartenente a quel ceto di anglosassoni benestanti che amavano la Toscana fino a venirci a vivere. A Careggi, sopra Firenze, i Clarke avevano una casa di proprietà. Si chiamava "I Cancelli". Lì erano nati i tre figli di Filippo e Margherita: Carlo nel 1925, Marella nel ?27 e Nicola nel ?31. Il concorso di Filippo per l´ingresso in diplomazia condusse nel 1933 la famiglia a Roma, dove Carlo studiò dai Gesuiti, prima all´Istituto Massimo e poi al convitto Mondragone. L´antifascismo, che aleggiava in casa, assunse maggiore evidenza durante la missione svolta dal capofamiglia come segretario dell´ambasciata italiana in Turchia e si approfondì ancora quando, fra il ?41 e il ?43, egli diventò console generale a Lugano. In Svizzera, il diplomatico napoletano si avvicinò al partito d´Azione: fino al punto da ospitare nella sua dimora elvetica uno dei suoi fondatori, Ugo La Malfa. In famiglia, per tutelarne la clandestinità, La Malfa era stato presentato come un maestro di ginnastica, amico e coetaneo di Filippo. Doveva presiedere alle prestazioni sportive dei ragazzi. Ma Carlo raccontava che, ai suoi occhi di adolescente, il travestimento perse ben presto efficacia. A rivelare in pieno la verità fu la decisione che il console Caracciolo prese dopo l´8 settembre del 1943: passare la frontiera italo-svizzera, attraversare le linee e raggiungere il Regno del Sud già in mano agli Alleati. Lì Filippo divenne sottosegretario agli Interni nel secondo governo Badoglio. La personale preistoria di Carlo Caracciolo registra a questo punto due svolte diversamente formative. La prima è uno di quei colpi di testa consueti nella biografia del personaggio: nella tarda estate del ?44 Carlo, quasi diciannovenne, salì su una barca a remi a Locarno costeggiando il Lago Maggiore fino a raggiungere, in territorio italiano, Cannobio: tramite il console americano a Lugano, un amico di famiglia, gli era stato affidato un piccolo carico d´armi da consegnare alla Resistenza. L´operazione riuscì. Carlo entrò nelle file dei partigiani della Val d´Ossola. Una vicenda sulla quale il protagonista s´intratteneva di rado, e che si concluse con l´inclusione di Caracciolo in uno scambio di prigionieri - catturato dai repubblichini, aveva rischiato la fucilazione - tra nazifascisti e partigiani. La Liberazione era vicina. Di ritorno a Roma, Carlo si laureò in Giurisprudenza ed entrò come apprendista e poi redattore di politica estera nel quotidiano L´Italia socialista. Fra i "superiori" che lo ambientarono nel mestiere Caracciolo ricorderà soprattutto Riccardo Musatti, diventato poi consigliere culturale di Adriano Olivetti. Fra i colleghi di redazione resteranno suoi amici Enzo Forcella e Giovanni Russo. 1949. Nella vita di Caracciolo ventiquattrenne, si apre una seconda parentesi: la permanenza di un anno e mezzo negli Stati Uniti. Carlo metterà a frutto la trasferta conseguendo ad Harvard un post-graduate in Giurisprudenza e facendo poi pratica legale in uno studio di New York, Sullivan & Cromwell, di cui era azionista Allen Dulles, ex capo dello spionaggio americano in Europa (Caracciolo lo aveva conosciuto a Lugano). Furono mesi di utili frequentazioni. Fra l´altro, egli poté conoscere da vicino un´importante società editrice, la McGraw-Hill; l´avrebbe presa a modello per le sue iniziative milanesi, che andarono svolgendosi dopo il ritorno dagli Stati Uniti, alla fine del 1950. La vocazione di Carlo verso il diritto non era stata irresistibile. Di diventare americano non se l´era sentita. In materia di editoria, a Milano, si dedicò soprattutto al campo tecnico-industriale, sorretto da qualche magra prebenda che gli assicurava suo padre Filippo. Il quale, dopo essere stato dal ?49 al ?54 segretario generale aggiunto al Consiglio d´Europa, si avviava ad assumere funzioni di vertice nell´Automobile Club: ne sarebbe poi stato presidente fino alla morte, nel 1965. Nei suoi esordi milanesi Carlo Caracciolo saggia le sue doti di talent-scout. Associa alla sua impresa persone assai capaci come Lio Rubini, tecnico della pubblicità, e Gianfranco Alessandrini, inizialmente esperto di computer. Affida a un giovane intellettuale, Livio Zanetti, la direzione di una delle sue riviste, Poliplasti. Più tardi, in un momento di difficoltà della Publietas, ricorrerà all´amicizia di Bruno Corbi - ex deputato comunista, vicino all´editore italo-francese Cino del Duca - per superare l´impasse. Non approderanno a nulla, invece, i suoi primi contatti con il quasi coetaneo Scalfari, che a Milano è funzionario della Banca Nazionale del Lavoro. Carlo gli propone invano di dirigere un altro suo periodico, Rivoluzione industriale. Sarà frutto d´un mero caso l´evoluzione del giovane editore nel titolare di un´impresa di risalto nazionale. Agli inizi del 1957, a poco più d´un anno dalla fondazione dell´Espresso di cui è proprietario, l´industriale Adriano Olivetti decide per sue ragioni di disfarsene, e anche su suggerimento di Musatti pensa a Caracciolo come "subentrante" nel controllo dell´azienda. L´operazione non richiederà, da parte del nuovo editore, un compenso in danaro: il settimanale perde d´altronde sui 100 milioni l´anno. Caracciolo disporrà del 70 per cento delle azioni, mentre il 20 per cento resta in possesso dell´editore Tumminelli e il resto andrà ad Arrigo Benedetti ed Eugenio Scalfari - rispettivamente direttore e vicedirettore (oltre che direttore amministrativo) del settimanale - nella misura del 5 per cento ciascuno. Carlo accetta la proposta. Della coppia di vertice dell´Espresso, è in confidenza con il solo Scalfari, il quale così riassumerà in un libro di memorie l´emergere di Caracciolo nel gruppo nascente: «Sale a bordo un principe biondo». (Va qui osservato che, nei riguardi delle proprie ascendenze aristocratiche, l´editore mostrava un distacco a sua volta aristocratico: amava ripetere un motto attribuito a re Ferdinando II: «A Napoli Caracciolo e immondizia non mancano mai»). Si delinea già quel legame a due, Caracciolo-Scalfari, che - pur con determinanti apporti successivi, da Carlo De Benedetti, attuale presidente del gruppo, a Marco Benedetto, consigliere delegato - diventerà la durevole cifra di un´impresa, il segno della sua continuità. Arrigo Benedetti, eccelso professionista, appartiene a un´altra generazione e rifugge dalla gestione aziendale. Dal 1967, quando Benedetti, in seguito a una crisi originata dalla guerra fra Egitto ed Israele, si allontana dal settimanale, la diarchia composta da Carlo ed Eugenio si fa ancora più stretta. Il successivo mezzo secolo, denso di eventi politici, è stato più volte raccontato nei suoi mille riflessi su quell´azienda che quasi si confonde con la biografia dell´editore ieri scomparso. L´Espresso diventa una testata egemone nel dibattito politico-culturale, e riaffermerà la sua vitalità sotto sette direttori: Scalfari, Gianni Corbi, Livio Zanetti restato in carica per quasi tre lustri, Giovanni Valentini, Claudio Rinaldi, Giulio Anselmi e ora Daniela Hamaui. La testata primogenita - L´Espresso, appunto - passerà a designare un´ampia sigla dai confini multimediali, nella quale figurano diciotto quotidiani locali - ecco una pianta che Caracciolo ha coltivato per trent´anni e che s´è rivelata assai fruttuosa - e varie testate sia radiofoniche che in Rete. Un processo nel quale, per dirla ancora con Scalfari, Caracciolo introdusse, in maniera crescente, «una dimensione industriale e una smania di espansione capitalistica». Smania? Che Carlo unisse al suo pacato snobismo il gusto di «inventare iniziative, mettere insieme la gente, agitare l´ambiente» al seguito di un fervido talento di giocatore, era lui il primo a riconoscerlo. Le vicende che preludono alla nascita della Repubblica, e ne accompagnano la vita - dall´accordo con la Mondadori, fino allo scontro con Silvio Berlusconi per il dominio della casa editrice di Segrate e per il controllo del quotidiano romano - recano in parte rilevante il segno della sua personalità. Chi ha ascoltato dalla voce di Caracciolo la cronaca dei rapporti intercorsi fra lui e l´imprenditore di Arcore ne serba un senso misto di stupore e di humour. In una fase di tregua della lunga guerra di Segrate, Caracciolo diventò presidente della Mondadori e si trasferì a Milano, con un ufficio a Segrate che potrebbe idealmente fotografare quanto di più opposto esistesse rispetto alla sua indole. Paragonato a quell´insonne villaggio dell´editoria, il palazzetto romano di via Po nel quale aveva lavorato per decenni a gestire il gruppo Espresso gli apparve forse, nel ricordo, un suggestivo "hotel de charme". Arrivava a Segrate di mattina e tornava a Milano quasi a sera, dopo aver fatto colazione in uno dei ristoranti aziendali. Non riusciva ad assopirsi nel pomeriggio, benché disponesse d´un ampio divano e una segretaria lo provvedesse di cuscino e plaid. In un suo libro, Piero Ottone ricorda di aver detto a Gianni Agnelli - marito di Marella - riferendosi all´ambiente di Segrate, che gli sembrava che lì Carlo avesse peggiorato la propria vita. «Migliorarla certo non poteva», fu la risposta di Agnelli, e l´allusione era alla calma elegante di casa di Caracciolo in via della Lungarina, a Roma, ai pasti leggeri che il cuoco Kemal gli serviva, alle partite di poker o di scacchi che ingaggiava con gli amici. Teatro di giochi erano anche le sue dimore di campagna, dapprima quella di Garavicchio, a un passo da Capalbio; poi quella di Torrecchia, vicina a Cisterna nel basso Lazio, ricavata da un antico castello in rovina. Lì Carlo curava, un po´ per hobby, un´azienda agricola con cavalli e bovini. La passione per questa seconda residenza splendidamente restaurata veniva condivisa da sua moglie Violante Visconti di Modrone finché fu in vita (sarebbe scomparsa nel 2000). All´atto di assumere una posizione soltanto "onoraria" nel gruppo Repubblica-Espresso, si poteva immaginare che l´attività di Caracciolo imprenditore avesse fine. Ma così non è stato. Nel gennaio del 2007 ha deciso di entrare nella proprietà di Libération, acquistandovi azioni per 5 milioni di euro. Diventava così, con il 33 per cento del capitale, il secondo socio del quotidiano francese (che attraversava una fase di difficoltà), mentre Edouard de Rothschild ne restava il primo con il 38,7. Si trattava di una scelta coraggiosa. Nel commentarla, Le Monde descrisse la figura dell´editore italiano in un articolo intitolato "L´uomo che non ama veder morire i giornali". Con un inizio di risanamento Libération cominciò presto ad uscire dalla sua crisi. Negli ultimi tempi Carlo andava spesso a Parigi. Così era Caracciolo, editore fortunato, imprenditore atipico. A chi, a un passo dalla morte, gli chiedeva, ricordando le tante creature editoriali che aveva contribuito a generare, se ne fosse valsa la pena, dava una risposta che veniva da lontano: «A volte mi sorprendo a pensare che Adriano Olivetti, se potesse vedere cosa è nato intorno all´avventura dell´Espresso, non ne resterebbe deluso». E aggiungeva: «Perché non dirmene entusiasta anch´io?». Nello Ajello